L’intervento di apertura all’82esima Mostra del Cinema di Venezia di Emanuela Fanelli non può lasciare indifferenti: o lo ami, o lo odi. L’attrice non si è infatti limitata ad un saluto istituzionale. Ma in un discorso ricco di humour, ma mai sopra le righe, ha scelto un taglio personale e potente: il cinema come generatore di empatia collettiva.
Fanelli ha sottolineato come, nelle sale buie del cinema, ci si sieda accanto a sconosciuti per vivere insieme storie di persone che non esistono, riuscendo tuttavia a provare emozioni autentiche.
“Al cinema ,mandiamo la nostra versione umana migliore.”
In un’epoca segnata da divisioni sociali, indifferenza e polarizzazione, Fanelli ha invitato la platea a risvegliare quella parte di sé che riesce a “sentire” l’altro, e a portarla fuori dal cinema, nella vita reale. Quel cinema che, oggi, è spesso al centro di polemiche (censura, cancel culture, guerre culturali), è stato ricondotto dall’attrice alla sua funzione più antica, e più semplice: quella di raccontare storie per comprendere il mondo e chi lo abita.
Un elemento centrale (e controverso) del discorso di Fannelli è stato inoltre la scelta consapevole di non menzionare il conflitto israelo-palestinese, durante la cerimonia. Fanelli ha spiegato infatti che avrebbe partecipato come cittadina a una manifestazione nei giorni successivi, ma che non avrebbe usato il palco della Mostra per pronunciarsi su un tema tanto tragico quanto complesso, sviluppandolo in poche frasi , mentre era“vestita di lustrini”.
Una scelta, quella dell’attrice, che è stata oggetto di non poche critiche; ma che, secondo Fanelli, aveva lo scopo di evidenziare ancora una volta l’importanza dell’empatia, preferendo non utilizzare il dolore degli altri alla stregua di un “elemento decorativo”, in una serata di gala.
Nell’ambito di un festival iconico, dove, tuttavia, le registe italiane sono ancora ai margini, la voce di Fannelli ha rappresentato una contro-narrazione gentile, ma decisa, pronta a ricordarci che “si può essere autorevoli senza alzare la voce, si può essere profondi restando leggeri, si può far riflettere con dolcezza”.
Una prospettiva al femminile che, nel mondo della settima arte, continua a stentare ad affermarsi: già, perchè quest’anno, tra i film italiani in concorso ufficiale, nessuno è diretto da una donna. Si tratta di opere firmate da Paolo Sorrentino, Leonardo Di Costanzo, Pietro Marcello, Gianfranco Rosi e Franco Maresco. La Mostra rimane, quindi, una vetrina culturalmente prestigiosa, ma ancora poco aperta voci di donne dietro la cinepresa: le registe italiane, coma Carolina Cavalli e Laura Samani, si trovano principalmente nella sezione Orizzonti, dedicata ai linguaggi emergenti.
Proprio Carolina Cavalli, ne Il rapimento di Arabella ha diretto l’attrice Monica Nappo: Nappo, anche in Jay Kelly di Noah Baumbach, dove recita in inglese, ha lavorato con registi come Garrone, Sorrentino, Scott, Ozpetek. Sul red carpet veneziano, ha sfilato accanto a George Clooney, Adam Sandler e Giovanni Esposito, suoi colleghi nell’ultima fatica di Baumbach.
Nel complesso della Mostra, invece, soltanto il 26,7% delle opere è firmato da registe: tra queste, Kaouther Ben Hania (The Voice of Hind Rajab), Kathryn Bigelow (A House of Dynamite), Ildikó Enyedi (Silent Friend), Valérie Donzelli (À pied d’œuvre), Mona Fastvold (The Testament of Ann Lee) e Shu Qi (Nühai).
Anche l’eterna Julia Roberts, protagonista dell’opera fuori concorso After the Hunt (che affronta questioni come il #MeToo, la cultura dell’annullamento e le dinamiche di potere accademico), per la prima volta al Lido, è infatti diretta da un regista uomo: il maestro del cinema Luca Guadagnino.
Mentre sul palco brillava una voce femminile – quella di Emanuela Fanelli- dietro la macchina da presa, ancora una volta, le donne restano troppo poche, troppo marginali.
La presenza femminile a Venezia 2025 è, anche quest’anno, confinata alle quinte, o veicolata da sguardi maschili: il ritratto di un cinema che mira a rappresentare le donne, ma che continua, paradossalmente, a negare loro lo sguardo.
Eppure, anche tra le crepe del sistema, si fanno spazio voci nuove, registe coraggiose, protagoniste complesse: è il caso, per esempio, di The Voice of Hind Rajab, di Ben Hania, che racconta la vicenda drammatica di una bambina palestinese.
Forse, neppure quest’anno, siamo dunque davanti alla Mostra “al femminile” che auspicheremmo. Ma comunqu ad un inizio che – come insegna il bel cinema – merita sempre, dopotutto, un buon primo piano.