Se alla fine del 1800 “Il ritratto di Dorian Gray” cercava di convincerci che “nel bene o nel male, l’importante è che se ne parli”, nel XXI secolo sarà forse il caso di rimettere l’assioma in discussione; e soprattutto, se la tematica in oggetto è di importanza capitale. Ed è proprio questo il nodo della polemica che, di recente, ha visto al suo centro l’attrice Blake Lively, che nella sua ultima fatica ha prestato il proprio volto a Lily Bloom, protagonista del bestseller di Colleen Hoover “It Ends with us- Siamo noi a dire basta.”
Il romanzo di Hoover (ispirato all’infanzia della scrittrice, segnata dagli abusi fisici e psicologici perpetrati dal padre ai danni della madre) racconta l’amore di Lily – giovane ragazza trasferitasi a Boston per cercare di realizzarsi come fioraia – per l’affascinante ed oscuro Ryle Kincaid, neurochirurgo che svela ben presto la propria condotta estremamente violenta ed abusatoria.
Ciò che apparirebbe, ad un primo sguardo, un prodotto destinato ad una “letteratura di consumo”, ha saputo quindi investire un significato decisamente più ampio, rammentando alle donne vittime di violenza che, come la stessa Lily (a sua volta, figlia di un padre violento e disfunzionale), spezzare il cerchio è, in realtà, sempre possibile.
A tal proposito, l’atteggiamento di Lively durante la campagna di marketing destinata al film tratto dall’omonimo romanzo avrebbe destato non poche perplessità, venendo percepito come sottilmente ambiguo. Sebbene una riflessione attorno al tema sostanziale della vicenda (proprio nel contesto di una Hollywood che, a suo tempo, fu pioniera del Mee Too) sarebbe risultata assai appropriata, l’attrice ha finito infatti per relegarla ad una posizione di minorità, con riferimenti soltanto occasionali alla violenza contro le donne, nel corso degli eventi promozionali.
Ed anzi: da Lively stessa, il film è stato presentato con una tag line “prendi le tue amiche, indossa qualcosa di floreale e vai al cinema” che ha avuto l’unico risultato di lasciar non pochi spettatori decisamente “con l’amaro in bocca”, apparendo “frivola e fuori luogo”.
Secondo alcune opinioni, l’attrice avrebbe inoltre utilizzato il lancio di “It Ends with Us” per pubblicizzare, piuttosto, i propri brand, tra cui una linea di prodotti per capelli ed un marchio di bevande analcoliche, quando non addirittura per incentivare la visibilità nel nuovo film del marito Ryan Reynolds, Deadpool & Wolverine.
Scelte che hanno dunque finito per indebolire significativamente il messaggio centrale della pellicola: specie se ci si sofferma a considerare che in prodotti caratterizzati da tematiche analoghe, quali, per esempio, “A promising young woman”, di Emerald Fennell, la riflessione attiva sulla vittimizzazione secondaria delle donne colpite da violenza aveva con pertinenza saputo rappresentare, a suo tempo, uno dei punti focali della campagna di marketing del film.
Neppure le voci di una burrascosa rottura della Lively con il regista e co-protagonista Justin Baldoni (che, nel film, interpreta proprio Kincaid) avrebbero, inoltre, giovato alla causa. Se è vero infatti che il regista, diversamente dalla collega, ha parlato apertamente di violenza domestica durate gli eventi di lancio del film, ricordando l’importanza di chiedere aiuto, e presentando alcuni numeri utili cui rivolgersi in caso di difficoltà, secondo talune indiscrezioni, Blake Lively lo avrebbe accusato di essersi reso colpevole a propria volta di “atteggiamenti inappropriati” sul set, tra i quali, alcune presunte (e sgradevoli) osservazioni sui cambiamenti del corpo dell’attrice, a causa delle numerose gravidanze.
Il necessario epilogo di questa campagna confusa e tutt’altro che incisiva ha finito dunque per trasformare il rischio di presentare erroneamente “It Ends with Us” come una commedia rosa e scanzonata, travisandone completamente i contenuti, in una solida realtà.
Certo; lo shitstorm che ha investito Lively nel più recente, “accusandola di mancanza di sensibilità e di frivolezza”, nonchè riepilogando svariati episodi della sua carriera in grado di provarne “l’antipatia, e gli atteggiamenti scostanti e divistici” con giornalisti e colleghi, non costituisce il modo più adeguato per soffermarsi a riflettere su un problema che, comunque lo si voglia affrontare, è reale, e meriterebbe pertanto una riflessione costruttiva.
Perchè sebbene sia innegabile che Lily Bloom, nel romanzo di Hoover, realizzi il proprio sogno di libertà ed indipendenza proprio attraverso il suo negozio di fiori, indossare gli sfarzosi abiti floral di Stella McCartney ad una Premiere non appare, forse, sufficiente ad onorare la lotta di una donna che si affranca con dolore dalla manipolazione di un partner egoista e violento per sé stessa, e per la propria figlia.
Con deferenza e cortesia, ci toccherà allora unirci al coro di coloro che ritengono opportuno ricordare a Lively che, no: “It Ends with Us” non è il set di una festa a tema flower; non è una commedia che strizza l’occhio ai buoni sentimenti, cui assistere con le amiche ruminando popcorn. E’ una storia di drammatica violenza.
Ed ogni volta che – chi ha voce ed autorevolezza per poterlo fare – rinuncia, invece, a vestire i panni di role-model, per ricordare ad ogni donna là fuori che, dopotutto, c’è sempre una via d’uscita, l’occasione persa diviene, tristemente, troppo grande.
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