La vicenda che ha coinvolto, di recente, alcune celebri attiviste, ha riportato al centro del dibattito pubblico la necessità di spazi di confronto sicuri, in cui le persone possano esprimersi senza paura di essere giudicate, ridicolizzate o attaccate. In un contesto mediatico spesso polarizzato e aggressivo, i media civici contemporanei, come Le Contemporanee, possono rappresentano veri e propri safe space: luoghi in cui voci diverse possono trovare ascolto, e legittimità.
Questi spazi non sono zone di isolamento, ma ambienti di responsabilità collettiva, dove il confronto diventa occasione di crescita e di consapevolezza sociale. La loro esistenza ricorda che la libertà di espressione non è solo “dire tutto”, ma anche garantire che tutti possano parlare in condizioni di rispetto e sicurezza.
Proponiamo dunque la riflessione di Marina Calloni, professoressa ordinaria in Filosofia politica e sociale presso l’Università di Milano–Bicocca, e Contemporenea.
In questi giorni, alcune conversazioni private tra donne attive nel dibattito pubblico e femminista sono diventate oggetto di esposizione mediatica. Al di là del gossip, che di per sé non è interessante, ciò che davvero preoccupa è il modo in cui rabbia, tensioni personali e conflitti interni vengono trasformati in spettacolo pubblico, in forme che nulla hanno a che fare con la storia del femminismo.
Il punto non è il pettegolezzo, ma una questione più ampia e urgente: cosa significa oggi fare discorso pubblico nell’era dei social media, senza che rabbia, invidia o competizione diventino strumenti di polarizzazione, performance o ricerca di visibilità?
Personalmente, non conoscevo a fondo i precedenti delle vicende oggi al centro della discussione. Ma ciò che emerge chiaramente è l’affermarsi di dinamiche di rivalità e dossieraggio reciproco, che sembrano avere più a che fare con l’auto-promozione e l’annientamento dell’altra/o, che non con l’attivismo emancipativo. I commenti non restano più confinati alla sfera privata, ma diventano atti pubblici: le parole si fanno performative, si trasformano in “verità d’odio”, a danno di chi le subisce.
A preoccuparmi, inoltre, è l’invasività della comunicazione sui social: da un lato ci sono gli interessi economici e commerciali degli influencer, che orientano e distorcono le nostre preferenze; dall’altro, c’è chi pur muovendosi in uno spazio che si richiama a ideali collettivi, ne tradisce i presupposti nel modo in cui gestisce i conflitti privati, costruendo nemici e nemiche.
È un fenomeno che merita attenzione, perché rischia di trasformare la sfera pubblica in un pantano, dove, sotto la superficie del dibattito, si agitano dinamiche personali tossiche. Ma il femminismo è altro: è un progetto politico, è costruzione di alleanze, è visione collettiva, è trasformazione. Non può ridursi a una vetrina di rivalità e accuse incrociate.


