Jim Jarmusch è un geniaccio e su questo non c’è dubbio. Così come è sicuro che il caro vecchio Jim non sia un regista “facile” o adatto a tutt. Le tematiche profonde che affronta, lo stile, le sceneggiature dei suoi film, ricchi di silenzi, metafore, correlazioni, segnali deboli dal mondo dei rapporti umani (che sono il marchio di fabbrica dello stile delle sue opere cinematografiche) sanno parlare a tutt ma non sono per tutt*.
Anche perché valgono come un anno di analisi psicanalitica o psichiatrica a seconda delle disposizioni d’animo.
L’ultima opera di Jarmush che ritrovate nelle sale in queste settimane non fa eccezione.
Averlo nelle nostre sale nel periodo delle festività e a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno può essere inserito nella lista dei buoni propositi, non sempre facili, del 2026.
Father, Mother, Sister, Brother, era stato presentato in primavera al Festival di Cannes e, come noto ha trionfato con il Leone d’Oro al Miglior Film all’82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (settembre 2025). Un riconoscimento storico per Jarmusch, in un periodo non proprio costellato di capolavori alle recenti mostre cinematografiche, bisogna ammetterlo.
Di padre in madre e di sorella in fratello, la pellicola ci offre uno specchio frammentato e rimandi continui alle nostre inadeguatezze relazionali, alle piccole e grandi ipocrisie, all’attitudine nel mostrarsi migliori di come si è anche in famiglia o soprattutto in famiglia. Ci riporta al nucleo originario, non importa se sgangherato o incompleto per le vicende della vita. E ci porta con quelle persone, anche quando tutti cercano di essere altro e altrove, rispolverando piccoli grandi traumi intimi e collettivi.
E non importa se si sia in un paesaggio desolato e tranquillo in mezzo alla neve, in riva a un laghetto in New Jersey o in un quartiere popolare di Dublino, in una casa appena svuotata nel centro di Parigi: la vita capita, combina i pezzi e i dna in modo bizzarro, e ci rifila parenti di complessa lettura e gestione. E’ giusto dire che ci capitiamo vicendevolmente. Possiamo scegliere di esserci estranei, ma non possiamo esserlo mai del tutto, nel profondo.
I fotogrammi del film ci ricordano che non importa se si consumano bevande semplici, come l’acqua, che ci purifica ma non ci permette di dire la verità di due o tre bicchieri di vino, o se tentiamo di rimanere composti mentre beviamo educatamente del te.
Ci sono momenti insostenibili e al tempo stesso rivelatori. Il DNA ci tiene comunque legati, senza nemmeno saperlo, ma le nostre scelte ci portano altrove, per motivi a volte imprevedibili, giusti, sbagliati o misteriosi.
C’è una condivisione di odori, sapori, modi di dire, silenzi, imbarazzi e perfino di colori, che ci piaccia o non, che fa e farà sempre parte di noi. Anche se non ci amiamo più, non ci siamo davvero mai capiti, se ci siamo feriti vicendevolmente o unilateralmente, se non siamo stati adeguati come genitori o come figli, quella roba lì rimarrà sempre, tra testa e gola, tra cuore e stomaco.
Il tempo ci cambia, stratifica incomprensioni, torti e ragioni, ma in alcuni momenti siamo tutti intorno a un tavolo o seduti per terra in una casa vuota, a fare i conti con quella roba strana che sono gli affetti più viscerali. Quelli che non puoi scegliere e che ti toccano in sorte.
Se guardiamo il film sotto la lente delle contemporanee, in una ottica di genere, il film di Jarmusch è un buon alleato per scardinare quegli archetipi patriarcali che ancora oggi definiscono il perimetro della “famiglia tradizionale”. Nessuna delle famiglie raccontate è una famiglia convenzionale.
Abbiamo un padre un po’ rincoglionito, apparentemente, che poi si mostra un paraculo di prim’ordine che vive un po’ di solitudine un po’ di compagnia a pagamento, che spilla soldi a uno dei due figli, single, infelice e con un lavoro remunerativo e che invece non riesce a fare nel cuore e nelle tasche della figlia, sposata e con prole, che ogni tanto viene colta da qualche senso di colpa che tiene a bada velocemente. Le loro storie si intuiscono da dialoghi appena accennati.
La seconda famiglia, con una madre egocentrica anche se fin troppo sobria, che fa analisi al telefono e si deduce faccia la scrittrice. Una donna, Charlotte Rampling, impenetrabile alle emozioni ma che gestisce male l’ansia di vedere le figlie una sola volta all’anno. Due figlie, diversissime, che un po’ si amano e un po’ si detestano, che non raccontano sé stesse né alla madre, né tra sorelle. Una delle due è una Cate Blanchett quasi irriconoscibile nel suo essere dimessa.
La terza famiglia è quella di due gemelli, recentemente rimasti orfani, da genitori giramondo e non convenzionali, che i figli adorano. I due giovani, sono figli, lo si intuisce, di una africano e di una francese o forse di una americana, hanno vissuto una vita precaria ma ricca di ricordi, oggetti, reminescenze che riaffiorano in ogni momento. Chiudere tutto in un box, dopo aver svuotato la casa dei defunti genitori, morti improvvisamente in un incidente aereo (veivolo pilotato dal padre, e spesso anche dalla madre) è molto difficile ma inevitabile. Resta il legame di sangue tra i gemelli, il loro sesto senso e la loro connessione anche a migliaia di km di distanza e una casa in affitto che non è più la loro e in cui non sono più i benvenuti.
Quel che resta è il sangue che scorre nelle vene.
Dal punto di vista de Le Contemporanee, non possiamo ignorare come il film tratti il posizionamento femminile all’interno della famiglia. Se il “Padre” nel film di Jarmusch rappresenta spesso il silenzio o l’assenza (emotiva o fisica), l’assenza di scrupoli, lo sbandato, fuori dagli schemi e dalla realtà, che vive una vita parallela in molti sensi, le figure femminili sono più complesse e di più difficile lettura. Non ne escono ritratti netti, al di là di qualche stereotipo sulla freddezza di certe madri e il voler primeggiare di certe figlie.
E’ nel rapporto tra i gemelli, sorella e fratello, che si trova un punto di equilibrio più sano e forse meno prigioniero degli stereotipi e dei ruoli.
Lo stile minimalista di Jarmusch si sposa perfettamente con l’idea che nelle famiglie contemporanee si parli molto per non dirsi nulla. E che i silenzi raccontino molte più cose.
Father, Mother, Sister, Brother non offre né soluzioni né lieti fine consolatori.
Ci fa indirettamente una domanda: riusciamo a guardare i nostri affetti più cari come delle persone, senza giudizi, senza costrizioni e aspettative? La risposta probabilmente è no. E il perché non ciriusciamo sarebbe un soggetto perfetto per un prossimo film.

