le opinioni

Suicidio all’università. Tra aspettative e narrazioni tossiche

Non è stato facile scrivere questo articolo. È importante sottolinearlo perché il fenomeno del suicidio in ambito accademico e universitario è strettamente legato alla nostra concezione di società performativa votata al sacrificio di sé. Una concezione questa – disumanizzante, spietata e impersonale – che da troppi anni in Italia spinge la singola individualità a spremersi come un limone per dei risultati socialmente pretesi: se ti sacrificherai per l’obiettivo, alla fine, sta certa che lo raggiungerai; i tuoi saranno orgogliosi – tradotto: non si vergogneranno di te – tutte le tue conoscenze ti invidieranno e la tua specializzazione ti trasformerà in una risorsa lavorativa. E ti realizzerai in quanto tale!

Il Merito ripaga sempre. In Italia la meritocrazia non è affatto uno specchio per le allodole. Lo sanno tutt* che funziona così il mondo dopotutto, vero? Credo sia ormai chiaro come la Vita non segua affatto un simile tracciato, pregno di un volontarismo magico e di sogno italiano di chiara ispirazione statunitense, se non per privilegiate eccezioni, magari di classe agiata. Definirle “fortunate”, oramai, sfocia nell’immaginario folkloristico. Ma entriamo nel merito dell’argomento citando alcuni esempi di vita vera.

Il 1° febbraio 2023 una studente diciannovenne, alla cui identità è protetta dall’anonimato, è stata trovata impiccata in un bagno dell’università IULM di Milano. La ragazza, com’è frequente nei casi di suicidio, ha lasciato un biglietto in cui spiegava il suo gesto: oltre a ignote motivazioni personali non divulgate ha chiesto scusa per aver “deluso” i suoi genitori; non si sentiva una brava studente, anzi, si sentiva un fallimento.

FALLIMENTO. È forse la parola che ogni studente, inseribile nella media accademica, avrà formulato almeno una volta nella mente pensando al proprio rendimento al di sotto del 30 e lode. Il caso della IULM non rappresenta un’eccezione.

Nella notte tra il 27 e il 28 novembre 2022, Riccardo Faggin, studente padovano in Scienze Infermieristiche, si è schiantato con la sua auto morendo sul colpo. Un tragico incidente, porterebbe a pensare, se non fosse che il ventiseienne aveva raccontato a tutte le persone che lo conoscevano, in primis i genitori, che proprio il giorno dopo avrebbe dovuto discutere la tesi. Una tesi che però era inesistente. Sì perché Faggin non aveva affatto completato gli studi come raccontava. Per evitare la delusione dei suoi, il biasimo circostante e la vergogna conseguente alla condanna sociale per via delle bugie raccontate, avendo creduto di perdere la stima, la fiducia e il rispetto di chi gli stava intorno, aveva deciso di farla finita.

Affine anche la vicenda di uno studente di giurisprudenza ventitreenne, ritrovato nel fiume Reno il 23 ottobre e che in seguito si scoprì aver mentito su una tesi inesistente da discutere. Così come il suicidio di un collega trentenne iscritto alla facoltà di Medicina presso l’università di Pavia. Lo studente non aveva raggiunto la media sufficiente per richiedere una borsa di studio. Chi sta leggendo riesce a immaginare come questo possa portare all’attuazione di un atto suicidario? Rilevatrici sono le sue parole d’addio del ragazzo indirizzate al Rettore Francesco Svelto: «Sono lo studente che si è tolto la vita in collegio: non sono riuscito a cambiare nulla. L’Edisu (l’Ente per il Diritto allo Studio Universitario, ndr) ha cercato di aiutarmi e gliene sono molto grato ma non è solo una questione economica ma anche di (in)giustizia». Fermiamoci qui. La lista sarebbe infinita.

Il suicidio de* studenti sembra essersi acutizzato con l’arrivo della pandemia da Covid-19, così come la depressione, ma non può essere chiaramente inteso come un allarme recente. Secondo il Rapporto sulla condizione studentesca 2022 prodotto dal CNSU (Consiglio Nazionale sugli Studenti Universitari) sembra infatti che l’età delle persone richiedenti il bonus psicologico rientrasse, per ben il 60%, nella fascia di età under34. Ciò induca che le generazioni più giovani hanno meno difficoltà nel valorizzare la propria salute mentale, così come l* over35 rivelano ancora un tabù sull’argomento.

Stiamo quindi riscoprendo l’importanza della salute mentale e al tempo stesso la pandemia ha velocizzato i tempi di consapevolezza collettiva. Ma ciò non può comunque bastare a spiegare il fenomeno se non teniamo conto delle problematiche alla base degli stati negativi, i disturbi mentali, la depressione, i DCA e i suicidi denunciati dalle persone iscritte all’università.

Perché mai così tant* studenti decidono di farla finita? Viste da fuori, le motivazioni – quando ci sono – appaiono incomprensibili a chi non le ha mai vissute: perché rimetterci la vita per una tesi? Per un esame? Per un voto basso? Il motivo, come abbiamo detto, non è riscontrabile tanto nello status di studente, quanto nelle aspettative che la nostra cultura della performance interiorizzata (e dei risultati produttivi) ha stabilito.

Perché accettare un 29 quando potevi prendere un 30 e lode? Non vi avrai dedicato il giusto impegno allo studio. Perché al collega riesce tutto e a te no? Qualcosa nel tuo metodo di studio non andrà bene. Perché ci sentiamo spint* a paragonare i nostri presunti fallimenti agli altrettanto presunti successi di chi ce l’avrebbe fatta? Perché al momento attuale, la competitività portata alla disumanizzazione dell’altr*, la produttività fine a se stessa, il terrore ansiogeno di deludere le aspettative familiari, e non ultima la buona reputazione sopra a tutto il resto, salute compresa, determinano il vissuto di troppe persone, particolarmente quelle altamente sensibili alla morsa sociale.

Viviamo in un Paese che non perde occasione di ricordarci quanto potremmo (dimostrare di) essere meglio, se solo lo volessimo davvero. Questo è il volontarismo magico: l’idea che se lo vuoi davvero – ovvero se ti sveni – allora riuscirai sicuramente. Basta accettare qualche delusione iniziale.

Al contrario, non si parla mai abbastanza di questione di classe, di nepotismo, di bullismo da parte del personale docente, di molestie sessuali, di abilismo e barriere architettoniche, di razzismo, di questione territoriale – la tragedia de* studenti fuorisede e il cappio del carovita nei centri urbani in particolare – dei privilegi di chi può contare su un aiuto economico da parte della famiglia e di chi invece si barcamena tra studio e due lavori, magari squalificanti e malretribuiti.

Una parentesi necessaria sulla narrazione di certi media, tanto affezionati ai concetti classisti di Merito ed Eccellenza, va aperta prima di concludere. La celebrazione dell’ennesimo plurilaureato in tempi record, con un voto stellare (e magari con corpo conforme e lavoro assicurato nell’azienda di famiglia) è un’eccezione che consapevolmente viene spacciata per normalità. Tale azione va tradotta per quella che è: un’offesa alla maggioranza stanziata nella media, che viene spinta a sentirsi inadeguata, che vede legittimato il proprio fallimento comparandolo al sorriso smagliante del baby plurilaureato dell’anno. Ciò sgretola certezze e corrode l’autostima di chi molla, se ne ammala e finisce per farla finita. Spesso non si ha una figura di riferimento positiva e non giudicante a cui aggrapparsi in grado di toglierci tali lenti distorte. Foraggiare un simile sistema è irresponsabile e criminale. E va detto chiaro.

Siamo ancora ben lungi dalla risoluzione del problema. Invece che domandarci se non sia il caso di rivoluzionare il sistema universitario nazionale – piramidale, omertoso e gerarchico – anteponendo la salute della comunità studentesca alla logica di profitto per trattenere quanti più cervelli possibili dall’emigrazione, tentando al contempo di sfruttarl* al meglio, riempiendol* di sensi di colpa e condizionandol* con assurde retoriche riguardo Merito ed Eccellenza, preferiamo osservare tre minuti di rispettoso (quanto inconcludente) silenzio sulla nostra indifferenza. Nel frattempo però, le lezioni continuano indisturbate.

The show must go on!

LA PAROLA A VOI

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CONTRIBUTOR

  • Transfemminista, attivista lgbtqiapk+ e militante pro-choice, Lou è una persona transgender non binaria. Dopo la laurea in Beni Culturali ha iniziato a formarsi in gender studies, cultura queer, feminism and social justice. Ha conseguito un corso in Linguaggio e cultura dei CAV. Ha abbracciato la campagna "Libera di abortire" e collabora con diversi collettivi transfemministi. Fa attualmente parte di Gaynet Roma Giovani. È una survivor di violenza. Attualmente è content creator, moderatrice e contributor. Suoi obiettivi sono: continuare a svolgere formazione nelle scuole e diventare giornalista. 

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