Non parliamo di abbandono, di madri o di privacy

“Ciao mi chiamo E. Sono nato in ospedale perché la mia mamma voleva essere sicura che era tutto ok e stare insieme il più possibile. La mamma mi ama ma non può occuparsi di me”.
Queste, secondo vari media, sarebbero le parole che la partoriente ha lasciato scritte accanto al neonato affidato dentro la Culla per la Vita presso Clinica Mangiagalli a Milano la mattina di Pasqua.


Una donna che avrebbe per lo meno meritato il rispetto della propria scelta, della propria privacy; il poter riprendere la vita contando di aver affidato chi ha partorito a persone competenti in grado di prendersene cura e di provvedere all’affidamento, senza inutili gogne mediatiche, giudizi popolari lapidari o vuoti paternalismi pseudo filantropici per puri scopi utilitaristici.
Una persona che non può o non vuole occuparsene, e va bene in entrambi i casi, è un suo diritto. Avrebbe potuto gettarlo nella spazzatura o affogarlo in un fiume. Ricordiamolo: non lo ha fatto. Al contrario, ha preso la decisione più responsabile che una persona nelle sue condizioni – a noi ignote ma intuibili come vedremo più avanti – avrebbe potuto fare: non “abbandonarlo”, come hanno titolato certi giornali ansiosi di specularci sopra, bensì affidarlo – i due verbi non sono sinonimi e chi lavora con le parole dovrebbe saperlo bene! – a una struttura protetta dove sapeva che sarebbe stato al sicuro, in attesa che una delle 500 famiglie italiane che ogni anno fanno richiesta per adottare venga scelta per il caso. Nel frattempo, per la cronaca, è già arrivato l’affido: una famiglia se ne sta già prendendo cura con amore.


Una storia più comune di quanto pensiamo, quella dell’affidamento, incisa nella nostra cultura: da Mosè nell’Antico Testamento a Quasimodo nel capolavoro di Victor Hugo, Notre-Dame de Paris, in cui madri impossibilitate a crescere i figli affidavano la prole a un’entità superiore o a un’istituzione in grado di gestire l’emergenza meglio di quanto avrebbero potuto fare loro. Donne povere, discriminate ed emarginate. Non è un caso che gli affidi si rivelino conseguenza di specifiche dinamiche avverse indirizzate a chi nasce con un corpo socializzato femminile.
Non minimizziamo: gli affidi, così come gli abbandoni e gli infanticidi, sono sempre avvenuti. Il problema sorge quando si dà per certa una motivazione univoca e semplicistica come quella della povertà. Perché le donne non si tengono i figli? Perché non hanno denaro, è naturale, altrimenti sarebbero felicissime di occuparsene, no? La teoria reggerebbe pure, ma solo in parte dal momento che il controllo delle nascite, la contraccezione e più di tutte la condanna sociale nei confronti dell’interruzione volontaria di gravidanza sono motivazioni prese sotto gamba senza alcun senso.


Analizziamo ora le problematiche successive al caso della clinica Mangiagalli. Nota importante. Benché sia stato bollato con il nome imposto al nascituro non ne troverete alcun accenno in questo articolo, per una questione di rispetto. Non seguirò quindi l’esempio di una larga fetta della comunità giornalistica commettendo l’errore di calpestare la privacy e il desiderio di riservatezza della donna in questione. Dettagli come il nome, il peso e la descrizione degli abitini con cui è stato ritrovato nella termoculla non sarebbero dovuti circolare. Se ci pensate non erano di alcuna effettiva utilità se non quella di ricercare la donna seminando prove indiziarie per un pubblico bramoso, quasi ella avesse commesso un illecito da perseguire penalmente. E pubblicamente. Fine nota.


La prima problematica emerge nel constatare come la vicenda sia stata raccontata attraverso l’occhio maschile; tre in particolare meritano un’analisi ciascuna. Uno sguardo paternalista e patriarcale dicevamo, caratterizzato dal solito pietismo dicotomico – e indissolubile – della Donna-Madre, così come la pretesa di saperne di esperienze biologiche mai provate sulla propria pelle.
Partirei citando il direttore di Neonatologia della Clinica in questione, il dottor Fabio Mosca, che in un’intervista rilasciata al Corriere di Milano afferma come in una città ricca (economicamente, ndr.) come il capoluogo lombardo una “mamma” costretta a rinunciare al figlio sarebbe, a detta sua, una sconfitta sociale.
Secondo il dottore quindi il problema primario non sarebbe altro che la povertà, o meglio il carovita milanese, che ogni anno strangola con i suoi affitti stellari e il rialzo generale dei prezzi, da cui non si risparmia nemmeno la contraccezione. A questo aggiungiamo il limitato accesso all’ivg. In Lombardia l’obiezione di coscienza risulta al 63,6%, (dati Istat relativi alla relazione Ministero della Salute del 2018, ndr.) e ben cinque ospedali si distinguano per totale obiezione di struttura, illegale secondo la legge 194/1978.
Non sarebbe stato possibile quindi che la donna in questione sia stata implicitamente spinta a partorire un figlio non voluto? Che non abbia avuto modo di accedere alla contraccezione e sia stata ostacolata nel percorso per abortire?


Altro aspetto non considerato è la già citata dicotomia Donna-Madre.
A scanso di equivoci: un parto non fa di una genitrice una mamma, eppure si continua a romanticizzare semplicisticamente tale visione (fondamentalista) della condizione materna, della madre tale fin dal concepimento. Come se tutti i concepimenti fossero voluti, desiderati o consapevoli frutti di atti d’amore. Come se nel 2023 si potesse ancora credere a luoghi comuni come l’innato istinto materno, figlio di un essenzialismo pensato e stabilito – oggi superato in ambito accademico, niente paura – da uomini.

Al dottor Mosca è seguito Ezio Greggio. Non staremo qui a chiederci cosa possa essere saltato in testa al noto conduttore e comico per decidere di esporsi riguardo una faccenda simile lanciando un video appello alla donna coinvolta per convincerla a ripensarci, per di più dimostrando di non possedere alcuna preparazione o cultura dell’adozione. È molto probabile però che servisse un volto popolare, ancora carismatico per l’italiano medio, per poter legittimare una affatto dimostrata convinzione tipica della comunità anti-scelta privilegiata e benestante: presupporre ovvero che la decisione non sarebbe stata affatto una scelta responsabile, anzi, la donna ora dovrebbe invece ascoltare chi di vita ne saprebbe più di lei – come lo “zio” Ezio che soldi ne ha, il denaro è un valore sociale dopotutto – facendosi aiutare da quattro filantropi ad andare avanti. Come e per quanto non si sa, ma evidentemente non è importante farlo sapere.
Avete forse avvertito una certa rassomiglianza con i discorsi degli antiabortisti? Esatto. La stessa storia pare, e non solo a me, una celebrazione mediatica e politica della Culla per la Vita e di chi l’ha promossa e finanziata: i Pro-Vita. La sua strumentalizzazione, in contrapposizione all’aborto legale e sicuro, denota l’evidente intento di compatire e al tempo stesso condannare socialmente la donna che decide di non essere madre. 
Ma tornando a Greggio. Egli si è esposto permettendosi di stabilire di che natura sarebbero state le motivazioni dietro all’affido, parlando di aiuto, senza però – tu guarda! – entrare nel dettaglio pratico. A che aiuto si riferiva esattamente? Di assistenza economica? Di supporto psicologico? Di un lavoro stabile? Di una casa da abitare?
Esattamente come gli anti-scelta, il comico ha vagheggiato ma non ha specificato né il genere, né le tempistiche o i limiti del sostegno privato.
Quello che vogliono realmente queste persone è che le donne (cisgender e bianche) non abortiscano, partoriscano e si tengano la prole a dispetto dei propri progetti e della loro condizione soggettiva; con che mezzi poi non si sa. Pena il terrore di venire messe in piazza.
Non si pensa minimamente all’autodeterminazione femminile qui, il cui rispetto ti spingerebbe a rispettare la scelta della donna, anche quella di non crescere un figlio: si tratta pur sempre di un diritto, così come quello dell’infante di avere una famiglia. Il discorso del conduttore ha stabilito, e riconfermato, una prerogativa gerarchica: il diritto della madre sarebbe sempre secondario rispetto a quello di chi ha partorito. Perché il figlio è innocente e bisognoso, mica come lei! La pretesa poi di saperne meglio – di maternità, di famiglia, di affidi e di dinamiche inerenti gravidanza, parto e difficoltà successive, fisiche e psicologiche – sono una chiara forma di mansplaining.


Terza problematica gravissima è stata l’invalidazione dell’adozione, sempre da parte di Greggio, che nel suo video appello ha “chiesto” alla donna «Prendi il tuo bambino che è bellissimo e si merita di avere la mamma VERA, non una mamma che poi dovrà occuparsene, ma non è la mamma VERA». Avete letto bene. La parola “vera” è data più volte utilizzata intenzionalmente (come sinonimo di “naturale, biologica”).
Una dichiarazione dell’Associazione Italia Adozioni ha risposto indignata sottolineando come Greggio, evidentemente privo della cultura necessaria per parlare di famiglie adottive come abbiamo detto poc’anzi, abbia danneggiato l’immagine di queste ultime, invalidandone l’autenticità come se esistessero, da una parte, le famiglie “vere” (con madre naturale, padre e pargolo, a cui aggiungiamo a questo punto un bel mulino bianco sullo sfondo) e dall’altra quelle adottive, che non essendo “vere” non lo sarebbero a tutti gli effetti. C’è da chiedersi in che posizione si trovino le famiglie monogenitoriali e quelle omogenitoriali nella mente del suddetto.
Le scuse di Greggio, come da copione, sono arrivate in tempo record seguendo una linea (scusate il gioco di parole) oramai “familiare” a chi viene pres* di mira dalla categoria privilegiata: il comico ha sostenuto di non essere stato capito. Ma nessun* ha riso.


Da problematizzare è anche la totale assenza, in questa narrazione già raffazzonata, della figura paterna – o se preferite anche voi, del proprietario dello spermatozoo entrato in contatto con l’ovulo. La figura paterna non esiste in certe situazioni e in determinate condanne popolari. Non esisterebbe l’uomo che affida la prole a chi può occuparsene (perché vedovo, indigente, malato o semplicemente disinteressato a ricoprire il ruolo genitoriale).
Basta una semplice ricerca sul web per trovare una quantità sorprendente di nomi noti il cui il genitore si è dileguato oppure ha scelto di affidare la figliolanza a terze persone. La verità fallace qui è che quando un bambino viene affidato a una clinica o abbandonato in un campo, il popolino scatena i forconi contro la madre (oramai sarà il caso di sostituire l’attrezzo contadino con i tweet misogini).
La donna che partorisce è quindi sempre madre, il padre non conta nulla e se è lui ad affidarlo a qualcun altro – o ad abbandonarlo – ciò non ha la benché minima importanza per la società. Può trattarsi di un caso di violenza domestica, di disoccupazione, un milione di altre motivazioni complesse. Ma il fatto che si rivolga l’interesse, sia in positivo che in negativo, solo e soltanto verso la donna conferma un doppio standard sessista: si sa che gli uomini sono copulatori ambulanti privi di controllo, “boys will be boys”; le donne invece no, dovrebbero stare attente e al massimo imparare a chiudere le gambe.
Come se davvero bastasse dire NO per impedire una violenza…


E qui non possiamo non ricollegarci alle altre grandi assenti nei discorsi di Mosca e Greggio. Parlo delle circostanze in cui la donna sarà rimasta incinta.
Partiamo dall’eventualità peggiore a cui sicuramente avrete pensato anche voi: lo stupro. O addirittura l’incesto. In caso si fosse realmente trattato di violenza, ve l’immaginate cosa avrà significato per la donna sentirsi trattare come una poveretta da compatire, una bambina irresponsabile o un’inetta su tutti i media? Dev’essere stato orribile.
Il minimo che potremmo e dovremmo fare sarebbe il riguardo per la sua scelta, restare in silenzio e prestare ascolto senza giudicare.
Ecco. L’esatto contrario di quanto dichiarato dal filosofo Umberto Galimberti. Queste le sue parole:
“Non si creda che una madre, che lascia il figlio in custodia a un ospedale, lo faccia con serenità, gioia e felicità. È la stessa ragione con cui non si fa con gioia e serenità anche l’aborto. Tutto sommato ci sta come atto d’amore”.
Tutto sommato, mi verrebbe da rispondere, Galimberti non ha mai abortito o partorito.
Al sentire lo sproloquio ho pensato subito alla coda (di paglia) tipica del filosofo, egregiamente analizzata da un altro filosofo, Lorenzo Gasparrini nel suo ultimo saggio femminista “Ci salderemo al fuoco delle vostre code di paglia”. È frequente infatti che il filosofo attempato – sostituirei l’aggettivo (forse un po’ ageista) con “superato” – creda di poter sapere come vada e funzioni la vita al punto da ergersi a profondo conoscitore di esperienze che, anche biologicamente, non ha mai vissuto e di cui non sa proprio nulla. Il problema, anche qui, è che la gente continua a prestargli ascolto in virtù di un’altra dicotomia, Anzianità-Saggezza, perpetuando una narrazione retrograda e sessista, oltre che imbarazzante.
Le parole di Galimberti però squarciano un velo: mostrano come lo sguardo maschile si imponga per paura di venire sbugiardato da quello femminile e queer.
In conclusione vorrei fare una domanda a chi ha letto fin qui: che società stiamo costruendo? Cosa stiamo diventando se non un deserto di spine incapace di solidarietà e affamato di particolari morbosi e condanne facili? Perché ci disinteressiamo delle soluzioni ai problemi sociali?


Ci auguriamo con tutto il cuore che la donna in questione venga lasciata finalmente in pace. E che possa guardare avanti senza timore alcuno.
Così come una seconda donna che, poche ore dopo il caso del Mangiagalli, ha partorito in un capannone per poi affidare all’Ospedale dei Bambini “Vittore Buzzi” il nascituro. Anche in questo caso sono stati divulgati particolari riguardanti partoriente e infante. Questo perché termini come ABBANDONO, MADRE e CULLA PER LA VITA hanno subìto un picco di ricerche e i media ne stanno approfittando con titoli allarmisti per puro squallido clickbaiting.
La gogna mediatica serve a questo dopotutto: a educare su come non comportarsi per limitare ulteriormente la libertà individuale. Non abortire e non affidare tuo figlio a terzi. In ogni caso non verrai comunque lasciata in pace.
“Sotto il suo occhio”.

Fonti:

https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2023/04/12/partorisce-in-un-capannone-e-abbandona-la-neonata-in-ospedale_309be488-0da2-4aab-9d1f-d788a4868fd4.html

https://www.wired.it/article/ezio-greggio-mamma-vera-enea-mangiagalli-appello-sbagliato/

https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/23_aprile_10/milano-enea-abbanonato-alla-mangiagalli-ha-gia-trovato-una-famiglia-859dda7b-1bdb-490d-97b0-eeaa95df3xlk.shtml

https://espresso.repubblica.it/inchieste/2023/01/30/news/aborto_lombardia_medici_obiettori-385721841/

Foto di Rene Asmussen su Pexels

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CONTRIBUTOR

  • Transfemminista, attivista lgbtqiapk+ e militante pro-choice, Lou è una persona transgender non binaria. Dopo la laurea in Beni Culturali ha iniziato a formarsi in gender studies, cultura queer, feminism and social justice. Ha conseguito un corso in Linguaggio e cultura dei CAV. Ha abbracciato la campagna "Libera di abortire" e collabora con diversi collettivi transfemministi. Fa attualmente parte di Gaynet Roma Giovani. È una survivor di violenza. Attualmente è content creator, moderatrice e contributor. Suoi obiettivi sono: continuare a svolgere formazione nelle scuole e diventare giornalista. 

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