Un pianto continuo che non si ferma, anche per ore, può mettere a dura prova chiunque, anche il genitore più amorevole e paziente. L’impotenza e la frustrazione che può generare, unite spesso alla stanchezza e, talvolta, alla solitudine, diventano un’arma pericolosa. Quando non funzionano i giochi, la culla, il seno, le ninnenanne, quando nulla sembra riuscire a calmarlo, si può arrivare, per la disperazione e la confusione, a scuotere il bambino per farne cessare il pianto. Sul corpo immaturo del neonato, però, un violento scuotimento, anche di brevi istanti può causare danni seri al suo cervello ancora immaturo, finanche permanenti: nell’immediato possono comparire sintomi come un’eccessiva sonnolenza, vomito, difficoltà di suzione e deglutizione, che precededono conseguenze anche molto gravi che si potrebbero manifestare successivamente, anche a distanza di anni. Nel lungo periodo il bambino potrebbe andare incontro a ritardi nello sviluppo psicomotorio, disturbi comportamentali, epilessia, fino ad arrivare, in casi estremi, a coma e addirittura morte. Si tratta della sindrome del bambino scosso, recentemente portata alla luce da tristi avvenimenti di cronaca.
La sindrome, che si manifesta il più delle volte nei primi sei mesi di vita, secondo gli unici dati a disposizione, statunitensi, con tutta probabilità sottostimati, colpisce fino a 3 bambini su 10mila e può colpire chiunque si prenda cura del neonato.
A scuotere violentemente un bambino tanto da provocargli seri danni può infatti essere la madre, il padre, il caregiver: è un gesto che nasce da un senso di estrema esasperazione e impotenza, generato spesso da lunghe ore di pianto inconsolabile. Lo stress che deriva dall’impossibilità di calmare il proprio figlio pone le basi per un cortocircuito psicologico che porta a scuotere violentemente il bambino, nel disperato ed estremo tentativo di calmare il suo pianto. Esiste però un modo per evitare tutto ciò a partire dalla consapevolezza di sé e dalla conoscenza di questa sindrome. Innanzitutto bisogna essere messi a conoscenza delle informazioni adeguate relative alle cause che possono scatenare una tale reazione nei genitori e avere presente le conseguenze che si possono generare. In secondo luogo è importante poter chiedere aiuto. Quando si avverte che si sta per raggiungere il proprio limite e che i pensieri e la lucidità si annebbiano, è necessario prendersi una pausa, interrompendo immediatamente quel circolo vizioso di esasperazione; può aiutare respirare profondamente, contare fino 10, mettere il bambino in sicurezza lasciandolo piangere da solo e allontanarsi per recuperare la calma o per chiamare qualcuno che possa prendersi cura momentaneamente del bambino.
Sembra una soluzione semplice, ma non lo è.
La nostra società richiede principalmente alle madri il maggior sforzo legato alla cura del neonato, sia per questioni di consolidato sentire sia per la mancanza di una struttura di welfare adeguata e del congedo parentale condiviso. Inoltre, pesa ancora sulla donna lo stigma atavico della mamma perfetta. Questo si traduce nel pericolo di un costante sovraccarico psicofisico. È ancora molto diffuso, soprattutto in Italia, lo stereotipo dell’angelo del focolare: la donna – madre, dotata di infinita pazienza e altrettanta infinita energia, capace di gestire il proprio bambino e la casa in totale autonomia. Questi tragici episodi devono stimolare una riflessione circa l’importanza di maggior informazione e consapevolezza riguardo la maternità. Molto spesso, le mamme con cui mi confronto mi dicono di essere spaventate di aver sollevato il proprio piccolo troppo violentemente, o preoccupate perché non hanno messo nel gesto la dovuta cura.
Le madri hanno il diritto di vivere questa condizione serenamente, ed è per questo che è così importante fare informazione sanitaria e sensibilizzare alle reali criticità della maternità. Un altro aspetto fondamentale è l’importanza di creare una rete attorno a chi si occupa del bambino. Non è necessario essere supermamme ma donne consapevoli, informate e non abbandonate, nella condizione di vivere gravidanza e maternità con la stessa serenità con cui si affrontano altri aspetti della vita, grazie anche al supporto della comunità.
Foto di Dakota Corbin su Unsplash
2 Responses
Più la cultura del paese richiede alle madri di essere “perfette” (la chiamo “iper maternità”, meno le donne fanno figli.
Esempio: Italia, Germania, Austria, …
Mica siamo masochiste !
Un pezzo interessante e soprattutto utile, per il punto di vista da cui parte: bisogna eliminare lo stereotipo della mamma perfetta. Tanto più in Italia. Potrei sbagliare, ma credo che questo stereotipo, questo mito di perfezione materna, sia una delle maggiori cause di denatalità nell’Italia contemporanea. Più di altre, che sicuramente esistono e sono importanti. Ma sono convinta che, inconsciamente, molte donne si facciano la domanda: posso essere una mamma perfetta, come tutti vorrebbero e come io stessa vorrei essere? Poiché la risposta per qualunque donna sana di mente sarà “no”, anche la decisione di avere un figlio sarà esclusa, o almeno posticipata per sempre. Ecco perché contrastare questo mito, al di là degli aspetti medici e psicologici indicati in questo articolo, dovrebbe essere un lavoro culturale profondo.