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Più di 2000 aziende femminili entro il 2026. Ma che cosa è un’impresa femminile?

“Settecento nuove aziende femminili entro il 2024 e 2400 nel 2026. È uno degli obiettivi governativi inseriti all’interno del PNRR, Missione V. Ma come possiamo crescere? E soprattutto, cosa si intende per impresa femminile? Chi puo’ effettivamente beneficiare dei finanziamenti del PNRR a oggi?”

Settecento nuove aziende femminili entro il 2024 e 2400 nel 2026. È uno degli obiettivi governativi inseriti all’interno del PNRR, Missione V.

Ma come? E soprattutto, cosa si intende per impresa femminile? Da questo assunto siamo partite quasi un anno fa quando sul comparto dell’economia guidata da donne fu acceso un faro al Ministero dello Sviluppo Economico. Fu istituito un tavolo – ad oggi fermo da febbraio 2021 – e furono stanziati 20 milioni in occasione dell’ultima Legge di Bilancio.

E mentre da quel momento grandi discorsi – e lo sottolineiamo senza sarcasmo alcuno – sono stati fatti dai governanti di mezzo mondo, Presidente Mario Draghi in primis, noi del Gruppo Donne Imprenditrici di Confimi Industria ci siamo interrogate proprio sulla definizione odierna di impresa femminile.

In poche parole: chi avrebbe potuto effettivamente beneficiare di quei finanziamenti pensati in supporto della formazione e dell’incidenza femminile nell’economia italiana.

Aziende femminili

A disciplinare la “fazenda” in Italia è la Legge 215/92. È considerata impresa femminile la società cooperativa e la società di persone, costituita in misura non inferiore al 60% da donne e la società di capitali le cui quote di partecipazione spettino in misura non inferiore ai 2/3 a donne e i cui organi di amministrazione siano costituiti per almeno i 2/3 da donne.

Una definizione che non tiene conto degli ultimi 40 anni. Abbiamo osato dire. E allora abbiamo studiato e osservato il sistema produttivo di cui facciamo parte. Se osserviamo l’economia reale ci rendiamo conto che il 66% delle aziende del nostro sistema economico ha dei soci donna e in quasi 8 (77%) aziende su 10 le donne rivestono ruoli apicali.

Ma c’è di più: nonostante le imprese guidate da una donna in Italia siano oltre 1 milione e 300 mila, ovvero 1 su 5, nel settore manifatturiero solo il 14% delle PMI si potrebbe davvero definire “impresa femminile”.

Una definizione che quindi si scontra con la realtà produttiva ed economica del nostro paese composto per il 92% da pmi che sono per lo più a conduzione familiare, aziende e industrie che si tramandano di generazione in generazione, indistintamente a figlie e figli.

È allora che, allarmate, ci siamo rimboccate le maniche.

Per far sì che si rivedessero i parametri, il Gruppo Donne di Confimi Industria ha presentato la propria indagine ad alcune esponenti della politica italiana in occasione dell’appuntamento digitale “L’impresa è femminile per definizione”. Ad ascoltare la proposta di revisione della normativa la senatrice Alessandra Gallone (FI), le deputate Silvia Fregolent (IV), Elena Murelli (Lega), Ylenja Lucaselli (FdI), la responsabile PD delle politiche per la Parità Cecilia D’Elia e Federica Chiavaroli già Sottosegretario alla Giustizia dei Governi Renzi e Gentiloni.

Proprio per tutelare e valorizzare le specificità del sistema delle pmi e al tempo stesso non penalizzare le imprenditrici che si occupano attivamente della gestione d’impresa, abbiamo proposto di riscrivere – ampliandola – una nuova definizione di impresa femminile pur facendo attenzione a mantenere il concetto di quota maggioritaria.

E così, a sei mani con l’Università e la Politica abbiamo avanzato questa proposta (oggi da calendarizzare alla X Commissione Attività produttive, Commercio e Turismo della Camera dei Deputati): vorremmo fossero ritenute imprese femminili le società cooperative e le società di persone, costituite in misura non inferiore al 51% da donne e le società di capitali le cui quote di partecipazione spettino in misura non inferiore al 51% a donne e/o i cui organi di amministrazione siano costituiti per almeno il 51% da donne.

Con questa nuova definizione si avrebbe un quadro più realistico dell’apporto delle donne nell’economia e proprio in base all’indagine condotta dal nostro Centro studi, si passerebbe a riconoscere come femminili il 33% delle imprese del manifatturiero.

Ma lo scoglio non è solo Italiano. La stessa UE che promuove l’empowerment al femminile presenta dei vuoti legislativi non indifferenti: non esiste una definizione unica di impresa femminile valida per tutti gli Stati membri. Sarebbe opportuno iniziare a livello europeo a sensibilizzare l’utilità nel fissare i caratteri normativi tipici della fattispecie, come è accaduto per la nozione di PMI, con i criteri proposti del 51%. 

Crediamo inoltre importante superare la definizione di “Imprenditrice” contenuta della risoluzione del parlamento europeo del 13 settembre 2011 sull’imprenditorialità femminile nelle piccole e medie imprese (2010/2275 – Gazzetta Ufficiale dell’UE CE 51/56) in cui si riporta che “un’imprenditrice può essere definita come una donna che ha creato un’attività della quale possiede una quota maggioritaria e che si interessa attivamente al processo decisionale, all’assunzione del rischio e alla gestione corrente”. Chi è in fondo Imprenditrice se non quella donna che, sebbene detenga una quota non maggioritaria della società, si interessa attivamente alla gestione della propria Impresa?

Ma tornando al PNRR, quali sono le problematiche urgenti da risolvere per permettere a una donna di dedicarsi alla propria impresa? In quale direzione incanalare i 400 milioni previsti per questi scopi?

Ottimizzare il work life balance. E la fase più acuta della pandemia ha messo sotto gli occhi di tutti quanto sia precario questo equilibrio per una donna alla quale viene chiesto di occuparsi in maniera quasi esclusiva delle figure più fragile della famiglia: bambini e anziani.

Difficoltà di gestione, è il caso di dirlo, che accrescono se si è chiamati a gestire un’impresa.

Essenzialmente mancano gli strumenti e le tutele: per le imprenditrici in gravidanza, ad esempio, è praticamente impossibile pensare di potersi assentare 5 mesi (come previsto dalla legge) per accudirsi e accudire il neonato; eppure, non sono previsti indennizzi o “bonus” per ammortizzare questo surplus di carico (e di spesa) – inutile negarlo – sociale.

Mancano anche gli strumenti. Per fare un esempio: la Lombardia e il Veneto, culla della manifattura italiana sono Regioni caratterizzate da comuni medio piccoli. Qui la rete di asili nido, dopo scuola, scuole primarie non permette spesso (e mal volentieri) di poter affidare i bambini a strutture pubbliche per l’arco della giornata di lavoro di una imprenditrice che di certo non lavora su turni o part time.

Rete sociale che manca – è bene ricordarlo – anche per la cura degli anziani. Non si vuol di certo fare a gara però se la situazione “famiglia” è complessa e complicata per una donna lo è ancor più se questa guida un’attività.

Un Paese che vuol superare il gender gap, prima di finanziare percorsi formativi all’avanguardia deve poter mettere le donne in condizione di operare per il benessere di tutti, a partire dal proprio.

Perché è non è più tempo di scegliere tra la professione e la famiglia.

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  • Vincenza Frasca

    Presidente del Gruppo Donne di Confimi Industria e Vicepresidente di Confimi Industria nazionale. Imprenditrice nel settore dei servizi, e' membro del Comitato Scientifico de Le Contemporanee.

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COMMENTI

6 Responses

  1. Buongiorno Vincenza,
    ho letto con interesse il tuo articolo e vi ringrazio moltissimo per la proposta della quale vi siete fatte promotrici, voi donne CONFIMI.
    Ho vissuto in prima persona gli effetti e le criticità derivanti dalla discriminazione di genere causate dalla legge vigente: pur detenendo insieme ad una sorella una quota rilevante della SPA di famiglia e pur con ruolo di vertice, mi sono vista negare l’accesso alle iniziative legate al sostegno e allo sviluppo delle imprese femminili.
    Vorrei aggiungere che, indipendentemente dall’aspetto legato alla finanza agevolata o alla veicolazione di questi 400 milioni del PNRR, in un mondo imprenditoriale che orgogliosamente si definisce 4.0, il messaggio che deve passare è quello dell’inclusione: in un CDA le teste hanno tutte lo stesso peso e in un’azienda le partecipazioni sono equivalenti, a prescindere dal genere.

    1. Grazie Luisa per la tua testimonianza che avvalora ancora di più il percorso che il Gruppo Donne Imprenditrici di Confimi Industria ha iniziato. Il fattore determinante ora è essere unite nello scopo per arrivare al traguardo. E ci arriveremo ne sono certa. Un abbraccio

  2. Grazie Vincenza!
    Si è fatta una grande partenza e vogliamo essere certe in un arrivo alla grande; sarebbe un buon modo per il mondo politico di far vedere un’apertura verso il mondo femminile.
    Con ammirazione.
    Rachele

  3. Bellissimo articolo grazie Vincenza!
    Una buona società e dove c’è un’economia con pari opportunità!
    Realizzare i propri sogni non deve subire discriminazioni di genere, perché non sarà solo ingiusta ma miope con la possibilità di perdere dei talenti.
    Grazie
    Federica

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