a cura de Le Contemporanee
Qualche giorno fa sulle pagine di un importante quotidiano italiano, La Repubblica, un articolo del Professore e sociologo Luca Ricolfi, provava a fare il punto sulla vita politica delle donne in Italia e in Europa, notando che, patriarcato o non, quelle che “ce l’hanno fatta” vengono sempre e solo dal centrodestra.
In particolare Ricolfi ricordava: “Se ci chiediamo quante e quali, negli ultimi 50 anni, siano state capaci di diventare leader politici di peso nei principali Paesi occidentali scopriamo che sono solo sette. E c’è un tratto che le accomuna: vengono tutte da destra”.
A destra c’è piu’ meritocrazia e meno cooptazione? Le donne osano di piu’?
In un altro passaggio Luca Ricolfi sottolineava “Dunque, cari amici studiosi di discriminazione ai danni delle donne, la domanda più interessante non è perché così spesso le donne non ce la fanno ma, semmai, perché per farcela devono essere di destra. Una risposta possibile è che, nei meccanismi che regolano le carriere politiche, a sinistra è ancora dominante la cooptazione, mentre a destra c’è anche un po’ di meritocrazia. Le donne di destra non paiono avere remore a sfidare in campo aperto i rivali maschi (lo ha appena fatto Valérie Pécresse in Francia, che ha battuto il rivale maschio Eric Ciotti), mentre quelle di sinistra troppo spesso paiono attendere la chiamata del capo, umili e ossequiose come le donne di un tempo.”
Non aggiungiamo altro a questa interessante lettura e a questo scambio e rimandiamo alla lettura integrale dell’articolo in questione che trovate qui e alle argomentazioni interessanti messe in campo da Pina Picierno, eurodeputata del Partito democratico, da poco eletta Vice Presidente del Parlamento europeo.
Donne e politica: una nuova dimensione della contesa democratica per il consenso
a cura di Pina Picierno
Nel corso di queste settimane in concomitanza con le elezioni per la Presidenza della Repubblica si è rinnovato il dibattito intorno alla scarsità di leadership femminili nei vertici delle istituzioni nazionali ed internazionali, gap, che secondo molti osservatori, riguarderebbe in maniera maggiore i partiti progressisti.
L’ultimo contributo intorno a questo tema è di Luca Ricolfi che, sulle pagine del quotidiano “La Repubblica”, ha argomentato l’affanno della cultura e del fronte progressista, in Italia quanto in tutto l’occidente. É indubbio che le leadership politiche femminili vedano generalmente una difficoltà seria e che i partiti progressisti siano, almeno apparentemente, i più coinvolti in questa difficoltà. E a poco vale, secondo Ricolfi, la generica spiegazione della sopravvivenza del patriarcato per analizzare il fenomeno nella sua complessità. Sul fronte progressista invece l’unica analisi lucida sembra essere, a leggere le sue righe, il dominio della cooptazione e l’ossequiosa attesa della chiamata del capo di cui sarebbero vittime le donne che svolgono attività politica nei partiti progressisti.
Proverò a contestare entrambi questi assunti. Resto convinta che il patriarcato non sia “un nome a un fenomeno di cui non si è in grado di ricostruire i meccanismi” e stupisce che sfugga all’autore che l’ambito familiare e di divisione del lavoro domestico, pur essendosi modificato sensibilmente nel corso dell’ultimo mezzo secolo, rappresentino ancora meccanismi diffusi di disparità, con modalità che sia la sociologia che la storia insegnano da tempo. Non nego che siano corsi profondi progressi dovuti principalmente al benessere delle nostre società e alle lotte delle donne, ma negare che il patriarcato abbia prodotto sedimentazioni oggi ancora vive equivale a non spiegare la radice profonda di un fenomeno ancora esistente e di una diseguaglianza ancora centrale. Con meccanismi di esercizio di potere e di controllo cristallini e innegabili. Ricolfi sembra accantonare la riflessione sociologica per sposare la tattica del mansplaining e in fondo, come tanti altri, anche meno raffinati, ci racconta che il problema dell’assenza delle donne al vertice è colpa delle donne stesse.
Il secondo assunto, quello relativo ai partiti e alla cultura progressista, è solo apparentemente più difficile da contestare. È assolutamente vero che sul punto anche i progressisti segnano un fortissimo ritardo, anche il partito nelle cui fila sono eletta. Ma guai a pensare che la presenza delle donne in politica sia da intendersi solo nella dimensione del conflitto di genere per accaparrarsi quante più postazioni possibili. Tutt’altro.
La presenza delle donne in politica o segna una nuova dimensione dell’agire e della contesa democratica per il consenso o non servirà alla società tutta. O comprendiamo che la rappresentanza delle donne è segnata dal bisogno, generale, di una politica meno conflittuale, più tesa alla soluzione dei problemi, dove la divisone tra progressisti e conservatori non avviene più su basi ideologiche ma sui problemi e sulle grandi scelte internazionali di fondo, o rischiamo di continuare a ridurre il bilancio della presenza femminile al suo album dei ricordi. E questo vale anche per la scelta delle leadership. Contese tipicamente maschili, muscolari e solo conflittuali non aiuteranno a rivolgere lo sguardo al futuro ma a perpetrare vecchie logiche di potere in cui la rappresentanza diffusa delle donne nelle istituzioni, che in questa logica conta assai di più delle stesse leadership, sarà di nuovo mortificata. L’elemento simbolico e concreto allo stesso tempo, incarnato da donne che riescono ad imporsi con la propria forza non mi sfugge, lo ritengo importante e l’ho provato sulla mia pelle molte volte e lo sarà anche nelle prossime ore in cui saremo chiamati a scelte fondamentali per il nostro Paese. Sarebbe molto significativo che una o addirittura entrambe le cariche di Presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica venissero ricoperte da donne. Ma sappiamo che in sé non è sufficiente, e come dimostra la cronaca delle ultime ore, può essere addirittura argomento usato da leader politici spregiudicati e sempre maschi. Il genere diventa mezzo e strumento per il solito gioco di potere, coinvolgendo anche alte cariche e figure dello Stato.
Cosa abbiamo ottenuto fin qui? Che poco più di un terzo dei parlamenti sia di genere femminile, in maniera abbastanza omogenea tra i vari schieramenti, grazie ad interventi sulla legge elettorale da noi richiesti. Basta? Assolutamente no.
Così come la riduzione del divario di genere non è solo a favore delle donne ma serve a cambiare in meglio tutta la nostra società, così una maggiore presenza delle donne dovrà servire a cambiare tutta la politica che affronta la sua crisi più grande. L’astensione crescente, la scarsa partecipazione alla vita dei partiti sono il riflesso di una politica machista che riduce ad una contesa di potere il suo agire. Per continuare a costruire una alternativa occorre concentrarci anche sulle realtà locali e sulle amministrazioni comunali, dove le donne nelle istituzioni, specie al Sud, sono davvero poche e dove più prossimo è il bisogno di una rappresentanza diversa. Le progressiste in Italia e in Europa lottano ogni giorno per ribaltare questo paradigma, in direzione contraria ai venti e ai tanti Luca Ricolfi che attraverso letture autoassolutorie difendono le loro posizioni di rendita e di privilegio che nel corso dei decenni abbiamo cercato di superare. Nel prossimo futuro saremo noi a salvare la politica e a donargli un senso nuovo.