Nessun dorma sull’Afghanistan e le sue donne

Afghanistan e le sue donne

a cura di Emma Bonino

Viviamo in un mondo molto tormentato e si susseguono una tragedia dietro l’altra: quanto accade al confine bielorusso-polacco – dove poche migliaia di migranti vengono usati dal regime di Putin e Lukašėnka come armi di ricatto contro l’Unione europea – in Sud Sudan – in cui la crisi umanitaria per la popolazione, determinata dalla guerra civile, continua a complicarsi per le alluvioni e la crisi economica – o in Etiopia, con la guerra tra Addis Abeba e il Tigrè, solo guardando agli esempi più recenti.


Così, anche il ricordo della tragedia del giorno prima si diluisce, man mano, sempre più, perché si perde la scia emotiva alimentata dalle prime notizie. E, anche l’attenzione per l’Afghanistan è oramai calata e riuscire a mantenerla viva è davvero molto difficile, mentre a rimanere in loco sono rimaste le agenzie Onu e poche Ong e qualche giornalista coraggiosi in situazioni molto precarie.

E, mentre gli umanitari continuano a lavorare per sopperire al fallimento della politica, salvando vite umane, si discute se far arrivare gli aiuti a loro o credere che la distribuzione degli possa essere affidata al governo talebano, che ha come suo premier Mohammad Hasan Akhund, il cui nome è nella lista dell’Onu di persone designate come “terroristi o associati a terroristi” che chiede di difendere la Sharia, e sappiamo tutti cosa significhi, o il figlio del famigerato mullah Omar, il mullah Yaqoub come ministro della difesa.

Emma Bonino (foto di Francesco Pierantoni)

Il tutto in una situazione molto simile a quella libica: in Libia ci sono le milizie mentre in Afghanistan ci sono molti clan, che da sempre controllano le periferie e su cui questo governo non ha alcun controllo.
E in questo contesto, gli Stati Uniti e, genericamente, “its allies”, da una parte, e i talebani, dall’altra hanno chiuso quello scarno accordo di quattro paginette a Doha. Ma è un segreto di stato sapere chi fossero questi talebani presenti.

Che ci fosse Baradar è chiaro, ma chi rappresentasse meno non è dato saperlo. Sapere chi fosse al tavolo dei negoziati aiuterebbe a capire sin d’ora se il rischio di una guerra civile sia escluso o no, per quanti tra quei clan che non si riconoscono in Baradar. La domanda da porsi è quindi se la leadership è tenuta assieme dal “collante Pashtun”, sino a che punto i reduci di Doha controllano i combattenti sul campo.


Dalla lettura dell’accordo emerge poi che i diritti umani, di donne o bambini, non vengono nemmeno citati, evocati da lontano, nemmeno per ipocrisia. Emerge solo un riferimento ai talebani, genericamente parlando di rompere i rapporti con la parte jihadista. Ma viene da sorridere amaro: la parte jihadista ce l’hanno in casa e il fallimento dell’intelligence Nato, Usa, è strabiliante. Possibile che in un territorio controllato da truppe occidentali non ci si accorge che è nato questo gruppo Isis-Khorasan, che è così agguerrito e così strutturato da potere, in poche ore dopo la presa dell’aeroporto di Kabul, fare due attentati?

“La domanda da porsi è quindi se la leadership è tenuta assieme dal “collante Pashtun”, sino a che punto i reduci di Doha controllano i combattenti sul campo.”


Per questo penso che dobbiamo andare molto lenti sul riconoscimento dei talebani, i quali peraltro un successo lo hanno già avuto. Sono passati da essere tagliagole impresentabili a persone con le quali dialogare. Sarà difficile opporsi al riconoscimento, perché certamente Russia, Cina, per altri versi la Turchia e un po’ di Paesi arabi li riconosceranno, visti i nuovi equilibri geostrategici che si sono determinati proprio per quell’area.

Allora cosa fare adesso, si chiedono in tanti. Anzitutto non far cadere la crisi afgana nell’oblio dell’opinione pubblica ed essere umili su quanto si possa fare.

Sin dalla presa di Kabul, nell’agosto scorso, ho con forza portato avanti due proposte, perché la mia prima preoccupazione è stata proprio quella di non spegnere i fari su quanto avviene, perché so bene che quando si mandano via i giornalisti, cala il silenzio.

E sono molto soddisfatta che il Governo italiano, abbia fatto propria e promosso la mia prima proposta di chiedere al Consiglio dei Diritti Umani con base a Ginevra l’istituzione di un Meccanismo di Monitoraggio. Grazie all’attenzione del Ministro Di Maio, della Vice-Ministro Sereni e del Sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, che ha strenuamente difeso questa posizione a Ginevra al Consiglio dei Diritti dell’Uomo per l’individuazione di un Rapporteur Speciale che monitorerà, con rapporti periodici, la situazione dei diritti umani.

L’altra mia proposta, sempre volta a mantenere alta l’attenzione, è stata quella di dedicare la giornata contro la violenza sulle donne del 25 novembre di quest’anno alle donne afgane, oramai recluse nelle loro abitazioni, senza poter lavorare, studiare o uscire di casa da sole.

Questo appello è stato accolto da Le Contemporanee e No Peace Without Justice che insieme a molte realtà dell’associazionismo italiano ed internazionale hanno organizzato alla Farnesina un evento di confronto con le istituzioni italiane e con la partecipazione di donne afgane in Italia, che Pangea sta aiutando da agosto per e dall’arrivo in Italia, o in collegamento da Paesi europei, come Shaharzad Akbar o Fawzia Koofi, di modo da meglio comprendere quali siano i loro bisogni e cosa si possa fare per aiutarle.

E anche se molto si può fare per i richiedenti asilo che sono riusciti a scappare e poco, sfortunatamente, in loco, resto convinta serva mantenere viva l’attenzione, con ogni iniziativa, sapendo bene che le stesse dinamiche per gli aiuti umanitari saranno lente e difficili e potranno subire un’accelerazione solo se a livello internazionale si attiveranno tutti gli strumenti disponibili, come la ratifica, anche da parte dell’Afghanistan della Convenzione Onu sui rifugiati del 1951.

Perché oggi, come e peggio di vent’anni fa, Kabul diventa la metafora rappresentativa di tutti i luoghi dove si stanno violando i diritti umani. Teniamolo a mente ogni giorno.

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CONTRIBUTOR

  • Emma Bonino

    Senatrice di +Europa, già Ministro degli Affari Esteri ed ex Commissaria europea. Eletta la prima volta alla Camera dei deputati nel 1976 col Partito Radicale, è stata da allora parlamentare sia in Italia che al Parlamento europeo continuativamente, eccetto nel periodo in cui è stata Commissario europeo, tra il 1994 e il 1999. Durante questo periodo ha affrontato molte crisi umanitarie, anche quella afgana.

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