La primazia dei diritti dei popoli: esistere, riconoscersi – sopravvivere

Sabato 7 settembre, ore 6.30. In molte località di Israele, le sirene suonano, raggiungendo sino l’area a nord di Tel Aviv. 5000 razzi incendiano i cieli, causando nell’immediato più di 700 morti ed oltre 2.200 feriti, in concomitanza con l’anniversario della guerra dello Yom Kippur che, esattamente 50 anni fa, vide l’attacco simultaneo, da parte di Egitto e Siria, alle frontiere Nord e Sud dello Stato ebraico.

L’operazione, condotta per terra e per aria, con uomini dal volto mascherato che, a bordo di tank, sono penetrati oltre i confini della striscia di Gaza, sferrando attacchi ai centri abitati, è stata rivendicata da Hamas. Ala paramilitare di Gaza, Hamas è un’organizzazione terroristica che controlla pressoché completamente il confine con Israele e con l’ Egitto, di cui si è impadronita con la forza, dopo una guerra civile nel 2007 contro le forze del movimento Fatah, guidato da Mahmoud Abbas.

Secondo l’alto centro studi italiano, Istituto Affari Internazionali, è possibile capire le ragioni dell’impietoso attacco sferrato da Hamas contro Israele solo andando ad investigare gli sviluppi regionali in corso, che vedevano crescenti tentativi di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Gerusalemme su pressione dell’amministrazione statunitense guidata dal democratico Biden. Maria Luisa Fantappié, già consigliera speciale per il Medio Oriente e Nord Africa al Centro per il Dialogo Umanitario di Ginevra, ci ricorda che la delicata area geopolitica non solo ha tempi ed equilibri da rispettare, ma anche regole non scritte, la cui mancata osservazione ha fornito un – seppur discutibile – pretesto ad un’organizzazione sanguinaria per reclamare ragioni e morte.

Le immagini di quanto accade in varie aree del paese sono impietose: i miliziani di Hamas sfilano, esibendo il cadavere di una donna mentre gridano trionfali “Allah Akbar.” Rapiscono giovani uomini e giovani donne, per condurli con la forza nella striscia di Gaza come ostaggi.

In poche ore, Gaza si concretizza agli occhi della comunità internazionale per quello che da tempo – nell’assoluto silenzio – già era: una prigione a cielo aperto, a pochi chilometri dalla quale un Festival di musica elettronica restituisce un altro clima. In un sobborgo della città di Okafim, non lontano da quel microcosmo di dolore, cade vittima anche Noa Argamani: una ragazza di venticinque anni che, mentre partecipava al Festival è stata catturata dai miliziani, che si fanno largo, sparando sulla folla.

“Non uccidermi.”- Implora, costretta a salire su una motocicletta, sotto lo sguardo impotente di Avitan; il fidanzato che, minacciato con una pistola, viene privato di ogni concreta possibilità di poterla proteggere. Nei molteplici video, rimbalza la disperazione del suo ultimo grido, mentre Noa scompare.

La stessa sorte sembrava essere toccata a Shani Louk, una giovane di cittadinanza tedesca. Dopo aver partecipato allo stesso festival, Shani è stata riconosciuta dai genitori in un video diffuso sul web mentre, apparentemente esanime, veniva caricata su una jeep. È notizia recente, diffusa dalla madre stessa di Shani, che la giovane tatuatrice sarebbe viva – seppur in condizioni critiche – e ricoverata in un ospedale di Gaza.

La controrisposta dell’esercito israeliano non si è fatta, tuttavia, attendere. Al 9 di ottobre, I jet in volo su Gaza hanno provocato più di 230 morti e 1.700 feriti, colpendo anche, come denunciato da Medici senza Frontiere, l’Indonesian ed il Nasser Hospital. Il numero di vittime non fa che crescere ogni ora, raggiungendo le 1055 vittime.

Al 16 di ottobre, il conteggio delle vittime impazza, restituendo l’orrore universale della guerra: nella striscia di Gaza è stata colpita una scuola a gestione UNRWA – braccio delle Nazioni Unite nella regione – che ospitava famiglie sfollate; 12 dipendenti delle Nazioni Unite dislocati nell’area hanno perso la vita nel tentativo di proteggerne altre; recenti stime raccontano come più di 1400 Israeliani e 2670 Palestinesi abbiano perso la vita. Un numero che non fa che crescere da ambo gli “schieramenti”, rendendo sempre più urgenti e concrete le richieste non solo di liberazione degli ostaggi israeliani, ma anche dell’apertura di corridoi umanitari per permettere soprattutto ad anziani, donne e bambini intrappolati a Gaza di non perire sotto il peso dei bombardamenti.

Questo, è solo dell’inizio di una rappresaglia che, come avverte il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, “agirà ovunque, su Gaza, in tutta la sua forza” riducendo i nascondigli di Hamas in “rovine.” L’Operazione Spade di Ferro, infatti, ha già chiamato a raccolta i riservisti israeliani, auspicando l’eliminazione dei terroristi ed inibendo ai palestinesi l’accesso per raggiungere Gerusalemme dalla Cisgiordania.

Hamas ha prontamente rivendicato la responsabilità della violenta offensiva contro Israele: ma mentre l’opinione pubblica internazionale si divide, tra condanne che stentano a venire pronunciate ed analisi, forse, eccessivamente manichee, c’è anche chi, in Israele, non risparmia un J’Accuse alla politica di Netanyahu. Il quotidiano israeliano progressista Haaretz, in un editoriale apparso domenica 8 ottobre, non ha esitato a puntare il dito contro il governo di “ultradestra” instaurato dal primo ministro che, oltre ad aver insediato in ruoli chiave gli estremisti Smotrich e Ben-Gvir, si sarebbe reso promotore di una politica estera che avrebbe apertamente “ignorato l’esistenza ed i diritti dei palestinesi.”

La differenza di cui molti invocano a gran voce il riconoscimento, tra Israele e Hamas, dopotutto, si cela proprio qui: tra la possibilità di esprimere dissenso interno sull’operato governativo – seppur con le celate ripercussioni che il governo di Netanyahu non ha mai fatto mancare – e la quotidiana oltre che assoluta impossibilità di condurre una convivenza pacifica in nome dei diritti di tutti i popoli ad esistere, riconoscersi, ma soprattutto a sopravvivere.

Il Presidente Mahmoud Abbas, in questo scacchiere esplosivo, dove si colloca? Secondo la giornalista del Washington Post, Miriam Berger, le poche dichiarazioni pubbliche emerse di Abbas dall’attacco terroristico guidato da Hamas dimostrano la sua debolezza, “una leadership sclerotica”. La forte impopolarità di Abbas tra i civili palestinesi non fa che renderlo inefficace. Secondo Rula Shadeed, co-direttrice del Palestine Institute for Public Diplomacy di Ramallah, il silenzio assordante di Abbas non solo riflette debolezza, ma l’avere “le mani legate. Il modo in cui hanno gestito la lotta di liberazione non è stato in alcun modo fruttuoso. Non sappiamo come andrà a finire”. Un silenzio, dunque, che pesa e paga lo scotto di un vicino sanguinario.

Appare fondamentale, infatti, ricordare la natura terroristica di Hamas e come questo tenga in ostaggio il popolo palestinese. Siamo di fronte a un movimento sunnita e fondamentalista che declina a chiare lettere, nella propria carta costitutiva, il suo scopo programmatico; la Guerra Santa, quale unico mezzo per realizzare la distruzione sistematica dello Stato di Israele.

L’atto terroristico rivendicato da Hamas, che oltre a seminare terrore e distruzione, non giova alla causa palestinese, ingenerando il dannoso equivoco di identificare la legittima aspirazione di un popolo ad avere uno Stato con le violenze barbare e cieche di un’organizzazione terroristica.

I ruoli si confondono, così, crescentemente, ed ombre minacciose incombono sui futuri scenari internazionali. A pagarne le conseguenze non solo quello che sembra il lontano spettro di pace e democrazia nella regione, ma soprattutto i civili, a cui la guerra senza esclusione di colpi non fa mai sconti. Se da un lato non possiamo che condannare le immagini scioccanti dell’attacco terroristico sferrato nel Kibbutz di Kfar Azza a danni di bambini israeliani, l’ammissione da parte di Israele di aver utilizzato fosforo bianco sui civili a Gaza restituisce appieno il tenore di questo scontro senza pietà.

Il principale alleato di terroristi e reazionari sembra, in questi primi giorni di conflitto, essere proprio la disinformazione: l’Unione Europea è prontamente intervenuta sul tema intimando a X e Meta di contrastare “entro 24 ore dalla segnalazione europea” la disinformazione alimentata dalle due piattaforme sul conflitto. In particolare, il canale social di proprietà del magnate Elon Musk risulta invaso di fake news e bot propagandando false immagini ad una rapidità senza precedenti.

A fronte della commissione di crimini di guerra e di violenze inenarrabili da entrambe le parti, serve, come comunità internazionale, ma soprattutto come Occidente – oltre che come Contemporanee – sforzarsi nella ricerca e nella lotta di un’unica ragione: quella della protezione dei diritti umani. Il riconoscimento del diritto di Israele ad esistere e del popolo palestinese a vivere libero dalla violenza oggi più che mai dipendono l’uno dall’altro. Scinderli o attribuire un ordine di priorità significa condannare l’idea di Israele, baluardo della democrazia mediorientale, a sparire. E con lei, stessa sorte avranno i palestinesi che cercano libertà.

Il diritto internazionale può essere, oggi, la più grande risorsa di tutti- anche per i non addetti ai lavori, che sperano però egualmente di non veder mai più sacrificata la vita di un altro civile trasformato in macchina da guerra; di un altro corpo di donna trasformato in merce di scambio o di un altro bambino, sacrificato sull’altare dei potenti.

Il Mediacivico, dunque (sebbene senza la pretesa di fornire coordinate geopolitiche specialistiche) ancora una volta, si unisce a difesa dei diritti, nella speranza di stimolare il dialogo costruttivo, sulla scorta di un clima – si auspica- sempre più diffuso di studio e di approfondimento. Poichè solo la conoscenza, e l’esercizio della comprensione possono concorrere a delineare soluzioni possibili ad uno scenario di enorme complessità, che coinvolge il nostro futuro collettivo.


Quali ipotesi, dunque, e quali soluzioni, o prospettive?

La parola a voi.

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