le opinioni

Not all men but yes all men

Se chi sta leggendo ha navigato almeno una volta all’interno delle piattaforme digitali, in particolare sui social, avrà sicuramente letto da qualche parte questo hashtag: Not All Men. Non tutti gli uomini.

Capita sempre più spesso di imbattercisi, soprattutto sotto contenuti dedicati alla violenza di genere contro le donne, a quelli sulla mascolinità tossica, sotto una notizia di stupro o di molestie riportate dai massmedia.

Uomini soprattutto, infervorati da un apparentemente senso di ingiustizia rivolto nei loro confronti.
Perché parlare di problema sistemico? Mica siamo tutti degli stupratori assassini noi! Io poi, uomo medio, mica le picchio le donne! Addirittura sotto i contenuti riguardanti i femminicidi c’è chi sbandiera l’hashtag, arrivando addirittura a negare l’esistenza del femminicidio perché (questa è la replica più quotata) “un omicidio resta un omicidio”.

Poco importa la miccia da cui lo stesso deflagra; ancora meno se le donne vittime di femminicidio vengono classificate così proprio perché ammazzate in quanto tali e per impedire loro di esercitare la medesima libertà di un uomo – sia essa lavorativa, sentimentale, sessuale ed economica. Ma come nasce il Not All Men? E perché non funziona?

Partiamo dall’inizio – il che significa precedere addirittura l’era dei social network.

Le opinioni sulla nascita del fenomeno da cui è nato l’attuale hashtag sono discordanti.

Le origini di Not All Men – per lo meno il tentativo di non generalizzare sul maschile – sarebbero da ricondursi addirittura al romanzo The Pickwick Papers di Charles Dickens (1836):

“Miss Wardle says, “Men are such deceivers”, to which Mr. Tupman replies, “They are, they are […] but NOT ALL MEN”.”

Secondo il giornalista John Herrman però, tale frase sarebbe presente ancora prima del famoso scrittore inglese. Ciò renderebbe quasi impossibile risalire a chi dobbiamo la coniazione e quando.

La scrittrice Jess Zimmerman aggiunge che prima del 2013 il Not All Men comparve all’interno di un testo della femminista statunitense Joanna Russ, On Strike Against God (1985):

“…that NOT ALL MEN make more money than all women, only most; that NOT ALL MEN are rapists, only some; that NOT ALL MEN are promiscuous killers, only some; that NOT ALL MEN control Congress, the Presidency, the police, the army, industry, agriculture, law, science, medicine, architecture, and local government, only some.”

Con il passare dei decenni, l’utilizzo della formula è stata adottata ed eletta a vero e proprio evergreen da conservatori e partiti di destra vertenti all’estremo.

Antifemministi, antiprogressisti contrari alla messa in discussione di un sistema che proprio attraverso la ciclica tattica della violenza di genere stabilisce dinamiche di potere specifiche: l’uomo può, la donna no. L’uomo potrebbe comportarsi abusando come vuole, lei dovrebbe accettare la presunta inevitabilità da parte del medesimo di cedere ai vantaggi della cultura dello stupro esercitando violenza.

Come abbiamo visto non è facile rintracciare l’origine del termine ma non del fenomeno a cui esso è legato. Quando una persona, di preciso un uomo eterosessuale cisgender, risponde ai problemi sociali riguardanti il genere femminile con il Not All Men non sta genuinamente difendendo la percentuale impersonata dagli uomini “decenti”: sta semplicemente mettendo le mani avanti per evitare di responsabilizzarsi come genere privilegiato e al contempo oppressore.

La formula del Not All Men enfatizza apparentemente una comunità decantandone i valori e la fedina penale immacolata – il che non dimostra comunque una buona condotta, pensiamo solo al numero di

stupratori mai denunciati e quindi mai perseguiti, 8 donne su 10 non denunciano (Vox, Osservatorio Italiano sui Diritti, ndr) – per evitare di rispondere a una questione cruciale: cosa sta facendo il singolo per il suo genere? Dov’era il suo dissenso prima? Come può aver sottostimato il problema sociale?

Ciò è facilmente spiegato dal privilegio di non essere mai stato oppresso per il proprio genere.

Se non si vive sulla propria pelle una discriminazione si fatica a vederla, e se non la si vede,e il mondo viene scosso da un tuono assordante di proteste, è comprensibile provare confusione.

Altra cosa invece è far passare per assoluta la propria visione (privilegiata) della realtà negando il fenomeno che coinvolge anche chi una donna non l’hai mai molestata.

Il solo fatto che la comunità maschile si senta attaccata da un dato oggettivo e che risponda con aggressività (più o meno passiva) incaponendosi in un discorso che – ricordiamolo – nulla risolve e nulla problematizza,

rivela una paura dovuta a una possibilità non colta, come abbiamo visto. Non si tratta solo di pigrizia individuale.

E purtroppo il Not All Men non viene adottato soltanto dagli uomini. Pensiamo alle donne che giustificano i figli stupratori colpevolizzando la survivor, o i mariti abusanti perché hanno interiorizzato la mai dimostrata bestialità maschile e la vittimizzazione secondaria.

Cosa risolve affermare durante il 25 novembre – la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne – che non tutti gli uomini abusino e ammazzino? Dovrebbe rappresentare un sollievo per chi esattamente? Per le donne coinvolte? O piuttosto per gli uomini stessi che necessitano di continuare a non pensarsi come genere ma come individui bravi e soprattutto estranei a certi fatti tutt’altro che episodici ed estremi?

Il sospetto che dietro alla formula vi sia mero egocentrismo maschile, oltre allo scontento di non essere più al centro del discorso se non nel ruolo di genere antagonista oppressore (il che non fa molto piacere,

immaginiamo), non è poi così infondato.

L’uomo singolo non viene attaccato perché il problema da risolvere è collettivo, i femminismi lo insegnano, eppure, paradossalmente, egli si sente attaccato, quindi reagisce alla presunta minaccia con una

generalizzazione vuota e inutile se non a spostare l’attenzione dal focus iniziale a un altro, meno impegnativo.

E il consenso dei pari certo non mancherà.

Il problema è che la strategia è sbagliata nelle premesse.

La comunità maschile farebbe bene a questionarsi su come interrompere certe dinamiche smantellando la piramide della violenza.

Comprendendo che non si tratta battute e scherzi da una parte e suscettibilità o eccessiva sensibilità (femminile) dall’altra.

Ripensando la mascolinità e capendo che la lotta alla violenza patriarcale non equivale a farsi fustigare dalle femministe uno per uno, ma a costruire una società più rispettosa della dignità altrui. Non solo femminile. Fin quando gli uomini non capiranno questo, non si lamentassero se le donne gridano per strada “Yes All Men”. Sì, tutti gli uomini (non si stanno (ri)pensando davvero, perciò si lamentano).

LA PAROLA A VOI

2 Responses

  1. Penso che questo “articolo” sia uno dei punti più bassi mai toccati da un qualsiasi commentatore web da molti anni a questa parte.
    Alcuni interrogativi sono doverosi:
    1: esattamente cosa dovrebbe fare, il maschio singolo, per i suoi simili presumibilmente violenti e per non risultare poi indirettamente complice qualora avvenisse la tragedia? Andare in piazza con un megafono a urlare: “basta femminicidi!!!” E naturalmente i femminicidi si fermerebbero istantaneamente, vero? Oppure dialogare con gli altri uomini e cercare le ragioni, profonde, dietro le quali mascherano le loro azioni? Naturalmente tutto ciò parte dal presupposto idiota, e completamente sconnesso dal mondo reale, che la stragrande maggioranza degli uomini(se non addirittura tutti mi raccomando)compie violenze di qualche tipo sulle donne.
    Ma cosa succede se, oltre magari a lui, anche gli uomini che gli stanno vicino non sono responsabili di nessuna violenza né sulle loro eventuali compagne ne su le altre? Cosa fare in quel caso? Prendere la macchina, girare per tutto il territorio italiano e andare a suonare a tutti i campanelli di tutte le case e domandare se al loro interno vi sono uomini che compiono la suddetta violenza? E in quel caso parlare col suddetto individuo a cuore aperto e cercare di capire? Esattamente in che modo un uomo, per non essere considerato “corresponsabile”, dovrebbe andare oltre una generica solidarietà e rendersi utile per la comunità? Le sue sono solo affermazioni vuote, generiche, qualunquiste e insignificanti, che si muovono e acquistano senso solo in un non meglio specificato limbo dove si è “colpevoli”, a conti fatti, per il solo fatto di esistere.
    Io, maschio, esisto e quindi sono colpevole…se questo abominio ideologico è la nuova frontiera del femminismo social allora mi scusi ma è meglio che l’umanità si estingua del tutto.
    2: la violenza di genere, malgrado i dati riportati e che spesso sono manipolati ad arte, non è necessariamente a senso unico(ossia solo dei maschi sulle femmine ma anche il contrario)ma di questo sembra non fregarvene assolutamente niente(e questo malgrado i recenti casi di cronaca nera in cui diversi partner sono stati uccisi dalla loro compagna)e quindi soprassediamo.
    3: se otto donne su dieci non denunciano non sarà che il motivo possa, semplicemente, risiedere nel fatto che le violenze NON CI SONO? E che quindi non c’è motivo di denunciare? Facciamocele due domande ogni tanto.

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CONTRIBUTOR

  • Transfemminista, attivista lgbtqiapk+ e militante pro-choice, Lou è una persona transgender non binaria. Dopo la laurea in Beni Culturali ha iniziato a formarsi in gender studies, cultura queer, feminism and social justice. Ha conseguito un corso in Linguaggio e cultura dei CAV. Ha abbracciato la campagna "Libera di abortire" e collabora con diversi collettivi transfemministi. Fa attualmente parte di Gaynet Roma Giovani. È una survivor di violenza. Attualmente è content creator, moderatrice e contributor. Suoi obiettivi sono: continuare a svolgere formazione nelle scuole e diventare giornalista. 

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