Riprendo le parole del titolo: È successo ancora, stavolta a Catania. Una ragazzina di soli tredici anni è stata sequestrata da un branco di sette sconosciuti in Villa Bellini, trascinata in un bagno pubblico e violentata a turno da due di loro mentre il fidanzato veniva immobilizzato e costretto ad assistere a quello scempio. I soggetti hanno lasciato tracce biologiche sulla scena e sui vestiti della survivor, sono stati presi e riconosciuti dalla giovane dopo 48h.
Fine? Neanche per sogno. Perché ciò a cui stiamo assistendo non è solo un episodio traumatico, le cui ripercussioni sono indefinibili, ma l’ennesima cinconvoluzione di una spirale di violenza infinita e chirurgicamente chiara nelle sue intenzioni: ridurre il corpo femminile a puro oggetto di intrattenimento maschile, umiliarne lo spirito e distruggerne la psiche attraverso una dinamica di potere perversa, spietata e gratuita. Assistiamo anche all’arcinoto effetto Lucifero, ovvero a quel complesso meccanismo psicologico per cui un gruppo di singoli si sente deresponsabilizzato nel commettere reati perché protetti, uno per uno, dal cameratismo omertoso del branco. Reati che in un contesto differente non commetterebbero, probabilmente.
La cronaca è piena di questi episodi: dal caso recente dello stupro di Palermo, a quello di Lorena Cultraro, fino a Desirée Piovanelli, questi ultimi culminati nel femminicidio delle due quattordicenni da parte di coetanei. Il corpo femminile diventa campo di battaglia, un ring dove performare davanti ai compagni di violenza il proprio livello di mascolinità e predominanza sullo stesso. Dimostrare forza e potere fa guadagnare ammirazione e rispetto; e, dopotutto, se lo fanno tutti gli altri che male ci sarebbe a fare lo stesso? Chi tra loro potrebbe biasimare?
Cos’altro ci racconta questo caso? Racconta di un ragazzo obbligato ad assistere allo stupro della ragazza con cui sta. Non si tratta solo di crudele sadismo. Nella logica del branco, dove il corpo femminile è un oggetto da utilizzare a proprio godimento, lo stesso viene inteso come proprietà sottratta a un pari, ovvero a un loro congenere. La ragazza insomma, seguendo tale logica maschilista, sarebbe stata intesa come proprietà del fidanzato. Poco importa se la survivor non avesse mai avuto rapporti prima, come ha riferito la stessa agli inquirenti al momento della denuncia, l’importante era sottrarla alle mani del ragazzo e fargli vedere che loro potevano prenderla e farne quello che volevano: perché in maggioranza, perché più forti, perché più maschi di lui.
Tutto questo sarebbe già abbastanza grave se non contassimo la solita criminogena strumentalizzazione del caso da parte della politica xenofoba e razzista nostrana. Incuranti della trasversalità della violenza di genere, che vede al centro del problema la mascolinità tossica e non l’etnia dello stupratore, si è tornati ad insinuare che il branco, composto da ragazzi di origine egiziana, sarebbero biologicamente e culturalmente predisposti a certi reati in quanto tali. È solo un tentativo cretino di ripulirsi la coscienza e per ribadire che no, gli italiani non stuprano, per lo meno non così. Ci sarebbe da ricordare loro che gli autori del caso di Palermo erano tutti in possesso di cittadinanza italiana. Non a caso quella volta la colpevolizzazione era ricaduta sulla survivor, per essere uscita la sera, per essersi vestita in un certo modo, per aver denunciato, per averci messo la faccia.
Nel caso dello stupro di Catania è invece scattata la retorica opposta, profondamente ipocrita: la povera vittima italiana, per di più immacolata sessualmente, viene aggredita dagli stranieri immigrati. Non ci si rende conto che sostenere tale sciocchezza equipara chi la sposa agli stupratori stessi: la vittima viene intesa come metafora del territorio violato dallo straniero selvaggio e incivile; oggettificazione sessista con una lunga storia anche di razzismo coloniale.
Una puntualizzazione andrebbe fatta anche sull’ondata di antimeridionalismo sempre in agguato in Italia. Sarebbe troppo facile infatti dare la colpa al Sud, associare i casi di Catania e Palermo solo perché entrambi accaduti nella regione siciliana. Come se l’appartenenza a un determinato territorio comportasse maggiori rischi vista la presunta mentalità patriarcale imperante in meridione.
Sono, come dicevamo, tutti tentativi per ripulirsi la coscienza sporca. Perché non si è investito su programmi educativi dedicati al consenso, al riconoscimento della violenza, alla sessualità e ai sentimenti? Perché sono stati tagliati questi fondi? Perché si continua a premere su una presunta, e non dimostratasi deterrente, giustizia punitiva? Perché ci piace leccarci le ferite piuttosto che prevenirle, forse? Davvero intendiamo postporre le survivor di violenza di genere e la loro salute rispetto a un cambio di rotta educativa?
L’educazione sessuoaffettiva oggi è uno dei pochi mezzi per contrastare la violenza di genere e la deformazione di uomini abusanti nei vari contesti sociali in cui si ritrovano a crescere. Chi non capisce questo non deve aver letto, studiato o anche solo approfondito il fenomeno nella sua complessità. E continuare a ripetersi che si tratta di figure isolate e riconoscibili, con un colore della pelle specifico, con un’età e un bagaglio preciso, non fa che gettare fumo negli occhi su un’urgenza in grado di mietere vittime a catena.
Continuare a parlarne tramite una narrazione mediatica corretta, rispettosa e non colpevolizzante poi, potrebbe rivelarsi il primo importante passo verso il lento cambiamento a cui aspiriamo. Ed è responsabilità di tutte, tutti e tutt* fare la propria parte per combattere uno stato di cose in cui l’empatia selettiva predomina. Insieme a certi bias.
FONTI:
Lo stupro di Palermo
Osservatorio sulla legalità
Effetto Lucifero
Desireè Piovanelli: storia di un omicidio
L’omicidio di Lorena Cultraro