In questi giorni, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, le parole del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, hanno riecheggiato con particolare frequenza. In occasione della Conferenza internazionale contro il femminicidio, tenutasi alla Camera dei deputati, Nordio ha dichiarato infatti che, nel “codice genetico” dell’uomo, ci sarebbe una resistenza alla parità tra i sessi. Secondo il ministro, questa pulsione di dominio non sarebbe solo storica: si tratterebbe di un retaggio millenario, di una sedimentazione che fatica a dissolversi nonostante le leggi ed i progressi sociali.
Questa affermazione suona preoccupante. Interpretarla come un dato biologico significherebbe, infatti, trasformare la violenza in qualcosa di inevitabile, quasi inscritto nella natura umana. Ma davvero possiamo accettare l’idea che la sopraffazione nasca automaticamente dal “maschile”, come un “peccato” genetico?
La violenza non è scritta nel DNA. E’ scritta nel nostro modo di pensare, nelle relazioni, nella cultura che abbiamo ereditato. Non è un destino naturale, ma una dinamica costruita nel tempo, fatta di potere, di paure, di silenzi e di stereotipi che si tramandano, una generazione dopo l’altra.
Ricordare che la violenza è un fatto “culturale” non significa, infatti, sminuire il dramma di chi la subisce: ma affermare con forza che non si tratta di un destino immutabile.
Significa riaffermare con urgenza che la violenza non nasce all’improvviso: ma ha origine molto prima, nei modelli relazionali, nelle parole che ascoltiamo da bambini, nelle dinamiche che normalizziamo da adolescenti, nelle idee distorte su cosa significhi amare, desiderare, scegliere, rispettare.
E se è vero che la legislazione ha un ruolo di primo piano, per sanzionare condotte scorrette e/o pericolose, punire e vietare non basta più.
E’ necessario, anzi, trasmettere ai giovani il valore del consenso. La differenza tra affetto e possesso, tra cura e controllo, tra desiderio e diritto: interventi senza i quali continueremo , purtroppo, ad intervenire sempre e solo quando sarà già troppo tardi.
Educare all’affettività oggi significa ricordare a ragazze e ragazzi che la violenza non è un destino culturale, ma qualcosa che possiamo prevenire, trasformare, disinnescare. Significa scegliere di investire sulla generazione che verrà, perché possa amare senza ferire e vivere relazioni basate sul rispetto reciproco.
Per questo, oggi più che mai, è urgente chiedere che le scuole — tutte, senza eccezioni — introducano programmi seri e continuativi di educazione sessuoaffettiva. Non come un optional, non come un argomento “sensibile”, ma come una parte essenziale della crescita degli individui: perché proprio tra i banchi si possono correggere gli immaginari distorti, sciogliere stereotipi e fornire strumenti di ascolto, di empatia, di consapevolezza.
E dunque, mentre si discute di “codici genetici”, vale la pena ricordarlo con chiarezza: la violenza non nasce nei geni, nasce dalle idee. E le idee, si possono cambiare.
È nelle aule di oggi che si decide il mondo di domani. Perchè il domani possa trasformarsi, finalmente, in un luogo dove nessuno chiamerà mai più “natura” ciò che è solo una cultura distorta, da ricostruire.
Che questa possa essere una giornata di memoria, riflessione ed impegno, per tutti, tutte e tutt* noi.
Le Contemporanee
