Basta con principesse o eroine infallibili, le ragazze di oggi necessitano di un diverso tipo di riferimenti. E alcune risposte arrivano dal libro “Il cuore è un organo” di Francesca Michielin, subito in vetta alle classifiche. Non è solo nei concerti, nelle sale di registrazione nel dirigere l’orchestra, che la cantautrice (sì, decliniamolo questo termine) sprigiona la sua incredibile energia. Davvero coinvolgente, da giornalista e da attivista, sentirla parlare, dal vivo, di tematiche femministe e annunciare, tra le altre cose, la seconda stagione del suo podcast “Maschiacci”.
Lo ha fatto, a fine marzo, in una cornice ricca di significato, la Fondazione Foqus, nel cuore dei Quartieri Spagnoli a Napoli, città a lei molto cara. Compare spesso nei video di Casa Surace e, sui social, ha mostrato di recente, il pontile di Bagnoli, una delle immagini riprese nel suo ultimo successo.
Frutto dell’iter di formazione che dal liceo classico di Bassano del Grappa (era al terzo anno quando, nel 2012, vinceva X Factor) l’ha condotta al conservatorio di Castelfranco Veneto dove, a febbraio, ha conseguito, con il massimo dei voti, la laurea in canto jazz. E pensare che, ricorda su Spotify, a scuola aveva una quindicina di opzioni per l’università, che andavano dalla sociologia all’ingegneria meccanica.
Perché Francesca è anche questo, una giovane donna, classe ‘95, tifosa della Juventus, che mostra senza problemi le sue fragilità. Non si barrica dietro la sua fama, ma rimane semplice e spontanea, come nel ringraziamento al suo professore di greco. Una lingua mai così viva che ritorna nel corso del romanzo, uscito il 15 marzo, ma nella sua testa da tantissimo tempo.
D’altronde non è ambientato ai giorni nostri, ma nel 2005, quando l’Italia ancora non aveva vinto i Mondiali in Germania, Instagram non esisteva e si usava MySpace. I riferimenti all’interno della narrazione sono in parte nascosti, dal Festivalbar a Donatella Rettore, d’ispirazione per Regina, figura chiave e piena di sfaccettature, analogamente a Verde, Anna, Sandra.
Una storia tutta al femminile che racconta di talenti repressi, di formalità ad ogni costo e dell’esserci solo un po’, il vivere a metà sperimentato a più riprese durante la pandemia. E, parallelamente, i rimedi per superarlo, scegliendo magari tra vasca e doccia, il dualismo reso celebre da Luciano De Crescenzo.
Scorrendo le pagine si trovano, in primis, le motivazioni per interrompere le relazioni tossiche: “Se stai con qualcuno devi sentirti libera di poter essere chi sei davvero” oppure “non chiedere sempre scusa”. La protagonista è una star di successo, che, a discapito dei suoi 22 anni, ha accumulato tantissimo stress per le pressioni ricevute, sensazioni che portano emicrania, tensioni muscolari. Eppure sul palco devono sparire di colpo, non si può piangere, bisogna avere la mente sgombra, cose a cui forse il pubblico non ha mai pensato: l’invito è dunque a non aver paura di esprimere i propri sentimenti, ovunque essi siano diretti.
Un esempio calzante, ripetuto dall’autrice nella presentazione napoletana, è la prenotazione al ristorante di un tavolo per “due persone”: ecco, lì non andiamo a specificare se si tratta di uomini o donne. Senza svelare altro, è importante sottolineare la questione di “rappresentanza”, citata nell’evento organizzato da La Feltrinelli, della comunità LGBTQ+.
Il percorso è sia sensoriale che linguistico, lo si può intuire dal titolo, e va a esplorare le sfumature, tra “persa” e “perduta” o tra “amore” e “affetto”. I maschi, nella narrazione, hanno un ruolo marginale, non per una supremazia di genere, ma per invitarli alla riflessione e porli di fronte ad un quesito: “Ti stai vivendo o ti stai lasciando vivere?”.
L’idea è di non ancorarsi a ciò che la società richiede (“non li voglio gli uomini che urlano, che non piangono mai”) e, soprattutto, di concedersi, se possono esserci utili, pause e periodi di riflessione. Davanti a una difficoltà o ad un evento traumatico, è naturale far fatica ad addormentarsi e, al contempo, è assolutamente sano concedersi “il diritto di fallire”.
Se fosse un film, “Il cuore è un organo” supererebbe con punteggio altissimo il test di Bechdel, la scala per valutare l’impatto femminile nella trama. Un dialogo tra due donne è l’essenza di più della metà dei capitoli, smontando il mansplaining e lo schema per cui all’universo femminile si associano unicamente a cura e assistenza. “No, io non sono quel tipo di donna – ammette la manager di Verde – Esistono anche altre possibilità”.
Photo IG @francesca_michielin