le opinioni

Culle, uomini e tiranni

In Italia nascono così pochi bambini che il futuro dell’Italia è a rischio. “Sparisce” una città di medie dimensioni ogni anno, e alla fine di questo secolo la popolazione italiana sarà ridotta alla metà, vaste aree del Paese saranno completamente spopolate, e ci sarà una tale sproporzione tra i tanti anziani e i pochi giovani, che questi ultimi non ce la faranno a mantenere quelli. Dovremmo correre ai ripari, forse. Ma, forse, è già troppo tardi.

Le dinamiche della popolazione sono energie potenti, che non è affatto semplice governare a volontà, e che possono cambiare il corso della storia. Ecco perché una collettività farebbe bene a occuparsene prima di essere travolta, ammesso che sia ancora in tempo. E’ quello che sperano due giornalisti, Luca Cifoni e Diodato Pirone, i quali hanno scritto “La trappola delle culle”, Rubbettino, un libro ricco di dati, tabelle e spiegazioni. Preciso e dettagliato ma comprensibile a chiunque abbia voglia di ascoltare: “La decrescita demografica – scrivono gli autori – semina disuguaglianza e sofferenza proprio nelle aree più deboli (…) L’esempio classico è quello delle scuole che chiudono per l’impossibilità di garantire classi con un numero minimo di alunni. Che si formino nuove famiglie non c’è nemmeno da sperarlo: gli sbocchi lavorativi per i giovani sono quasi inesistenti e per loro, una volta completati gli studi secondari, l’esodo è un percorso quasi obbligato”. “ Lo spettro – concludono i due autori – terribile ma non così remoto, è quello della desertificazione di ampie zone del Mezzogiorno, di un’intera isola come la Sardegna, ma anche delle aree meno “brillanti” del Centro-Nord”. Uno scenario apocalittico.

Ma non finisce qui. Non saranno investite solo le aree dell’Italia già in difficoltà. Lo tsunami combinato dell’invecchiamento della popolazione e del ridotto numero di giovani, farà saltare per aria l’equilibrio tra lavoratori attivi e pensionati (già oggi al limite) e metterà in seria difficoltà altri sistemi vitali della nostra società, come per esempio il sistema sanitario pubblico. Per non parlare della crescita del prodotto interno lordo, che spesso è strettamente legato al tasso di crescita della popolazione.

Come siamo arrivati a questo punto? Con un meccanismo che si autoalimenta e che potrebbe semplicisticamente essere definito il circolo vizioso della natalità: a un certo punto della nostra storia, diciamo tra la fine degli anni 60 e gli anni 70, l’Italia ha cominciato a fare meno figli, perché la società è cambiata, le aspettative si sono modificate, si sono trasformate le famiglie, sono cambiate le aspettative delle donne, e la società non è stata rapida ad adattarsi a queste nuove condizioni. Quindi, mentre le istituzioni non facevano nulla per aiutare le famiglie, queste ultime hanno rapidamente preso la decisione di avere meno bambini.

A venti anni di distanza, quando quei bambini nati negli anni 70 sono diventati adulti, il numero delle donne in età fertile era molto più basso di 20 anni prima, e quindi automaticamente potevano far nascere meno bambini dei loro genitori. Per sovrapprezzo, anche loro, tra la fine degli anni 80 e gli anni 90, hanno deciso che volevano avere meno figli. Di nuovo, venti anni dopo, le donne in età fertile sono state ancora di meno, e anche loro hanno deciso di fare ancora meno figli. Una spirale, un avvitamento, come lo vogliamo chiamare? La sostanza è che il risultato di questo processo è molto maggiore della somma delle singole scelte individuali, e ci ritroviamo oggi con un numero di potenziali genitori troppo piccolo per risollevare facilmente il numero di nuovi nati. Anche ammesso che questi potenziali genitori ne abbiano voglia.

Il problema però, è che la scelta di avere dei figli talvolta viene rinviata al futuro. Niente di male, si dirà. Ma a volte i futuri genitori si “decidono” quando è tardi, quando cioè, per la loro età fisiologica, non è più così facile riprodursi. Comincia allora un calvario di “tentativi”, cure e magari anche ricorso alla riproduzione assistita, il cui risultato non sempre è quello sperato. Conclusione: il tasso di natalità si abbassa ancora di più, e spesso è un miracolo se una coppia riesce ad avere un figlio, e uno solo.

Cifoni e Pirone hanno il merito di avere scandagliato la questione in tutti i possibili risvolti e soprattutto, hanno messo insieme tutto il panorama delle potenziali “ricette” per contrastare questo fenomeno che, se non porterà rapidamente all’estinzione dell’Italia, però rischia di andarci molto vicino. Dunque, cosa si può fare?

Nel catalogo di Cifoni e Pirone ci sono 9 azioni possibili, per cercare di sollevare l’attuale media di 1,2 figli per donna, e andare in direzione del fatidico numero di 2 figli per donna, obiettivo comunque lontano e non realistico nel breve periodo. Ma già arrivare all’1,7 ridarebbe fiato a una società asfittica.

Sembra strano, ma al primo posto i nostri autori mettono il linguaggio: trovare le parole giuste, che non siano inquinate da reminiscenze del passato fascista e da quello democristiano, è difficilissimo. Toccare il tasto sbagliato significa fallire rumorosamente, come sa per esempio un’ex ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, sommersa dalle critiche al primo tentativo di una campagna di sensibilizzazione sulla fertilità. Dovette fare subito marcia indietro e la campagna fu cancellata. Ma anche nel privato, il discorso sulla genitorialità circola con molta difficoltà, e i giovani “parlano” poco di questo tema, perché a quanto pare sono poco interessati. Ostacolo quasi insormontabile.

Tra gli altri rimedi analizzati nel libro si parla di aiuti alle famiglie, in soldi e strutture, argomento certo non nuovo, ma che in Italia ha il difetto di aver visto spuntare e accumulare provvedimenti e decisioni diverse a ogni governo, generando così scarsa fiducia e tanta confusione. Perfino la stabilità del lavoro viene presa in considerazione da Cifoni e PIrone come elemento determinante per creare fiducia nel futuro tra i potenziali giovani genitori, ed è possibile che le nuove assunzioni nel settore pubblico generate dal Pnrr ora possano aprire qualche spiraglio.

In tema di lavoro c’è un capitolo importante: favorire l’ingresso nel mercato del lavoro delle donne, visto che negli ultimi 30 anni, almeno, è successo che sono proprio le donne che lavorano quelle che fanno più figli, e non quelle che “stanno a casa”. Questa semplice constatazione statistica non è così universalmente nota, ma è forse uno dei cardini della questione. E qui le politiche possibili si moltiplicano, visto che negli anni non sono mancate proposte per incentivare il lavoro delle donne, in Italia il più basso d’Europa, esclusa la Grecia.

Nel catalogo delle proposte contenute nel libro si passa poi al bollino blu per le aziende che “favoriscono i genitori”, che a molti può sembrare una delle solite operazioni “vetrina”, ma comunque non è detto che guasti. E poi si arriva a parlare delle politiche per favorire le adozioni e l’accesso alla fecondazione assistita.

Ma sono altre due le politiche su cui vale la pena di soffermarsi, anche se gli autori le mettono nel calderone con tutte le altre. La prima riguarda gli uomini: “In maternità mandiamoci gli uomini” scrivono Cifoni e Pirone. E qui finalmente si tocca un nervo scoperto. Forse uno di quelli che più impediscono il cambiamento della società italiana, non solo nel settore natalità. E’ un tema che da solo meriterebbe un altro libro, e che qui viene trattato solo per ricordare che qualche strumento già esiste, ma sia il congedo obbligatorio (ora salito a 10 giorni) sia quello facoltativo fino ai sei anni del bambino (che dà diritto a una retribuzione del 30% dello stipendio) vengono utilizzati da percentuali microscopiche della popolazione maschile. Perfino i giorni “obbligatori” non vengono utilizzati dai padri, figuriamoci il resto! Ma qui i nostri autori – due maschi, va ricordato, anche se di buna volontà- si fermano. Peccato.

L’altro grande tema, anche questo molto divisivo, è quello dell’immigrazione. E’ chiaro e lampante che un paese in declino demografico, se vuole trovare lavoratori sufficienti, dovrà fare ricorso a persone nate fuori dalle proprie frontiere. Cosa che già avviene, tra maldipancia e contorcimenti vari. I sondaggi negli anni hanno sempre evidenziato la diffidenza degli italiani per l’immigrazione, e non saranno certo le sole cifre, nella loro freddezza, a semplificare un processo che andrebbe governato e non subìto. Quindi servirebbe un rafforzamento dei canali legali dell’immigrazione, anche per cercare di evitare i fenomeni emergenziali dei “barconi” che attraversano il Mediterraneo.

Purtroppo è proprio su questi due temi, profondamente culturali, profondamente legati alla mentalità, alla vita giorno per giorno, alle paure, ai valori, che il discorso della natalità si infrange. Se l’immigrazione fa paura è perché non si tratta solo di “numeri” ma di persone portatrici di una cultura, religioni, usanze, atteggiamenti (la lingua è quasi la cosa minore), che possono essere molto diversi da quelli della società italiana, e che quindi andrebbero affrontati con grande realismo e cautela, oltre che con coraggio. L’integrazione a parole la vogliono tutti, ma in pratica è molto più complicata di quanto si dice, sia per il popolo “ospitante”, sia per gli “ospitati”. E se è vero che può essere la più grande forma di ricchezza, è anche vero che gli esempi di gestione da parte di altri paesi non sono sempre stati all’altezza delle aspettative.

Ma è il tema delle dinamiche maschio-femmina e delle aspettative legate alla paternità e alla maternità, il punto forse più sottovalutato del discorso pubblico. Si tratta di cambiamenti epocali, che non si affrontano certo con dei pannicelli caldi. Tanto più che l’Italia, più di altri paesi europei, ha dimostrato una particolare resistenza su questo terreno. Paradossalmente, proprio l’esistenza di una immagine idealizzata della Mamma Italiana, e la sua persistenza anche in epoca di denatalità, ci fornisce un forte indizio sul problema principale della questione “italica”.

Dirò di più: abbiamo affrontato il tema tra donne fino allo sfinimento, dagli anni 70 in poi. Purtroppo però le stesse donne italiane hanno tuttora una visione esagerata del proprio ruolo e delle proprie responsabilità nei confronti dei bambini e della famiglia. E’ questo il problema. Avere elevato la famiglia e i bambini a tiranni (amorevoli, ma sempre tiranni) della vita delle donne, le ha costrette a sottrarsi. E quindi a non volere figli. Non è sorprendente, se ci si riflette.

E’ solo quando i valori e i comportamenti dei maschi saranno presi di petto in quanto tali e saranno affrontati anche con misure fiscali e economiche (sono i soldi che segnalano la serietà delle decisioni), che forse qualcosa potrebbe muoversi nel sentimento generale. E’ solo quando gli uomini troveranno normale gestire la prole, così come le necessità del quotidiano, è solo quando la smetteranno di credere che devono “aiutare”, per farsi carico invece “in prima persona” della vita materiale e familiare, che qualcosa potrebbe cambiare. A quel punto la mamma sarà scritta con la m minuscola , non sarà più associata al sacrificio, e forse sarà più disponibile all’idea di mettere al mondo dei bambini, senza temere che si trasformino rapidamente nei suoi “tiranni”.

LA PAROLA A VOI

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CONTRIBUTOR

  • Angela Padrone, giornalista e scrittrice. È laureata in Filosofia e si è formata seguendo studi di Storia e soprattutto di Antropologia Culturale. Per una vita ha lavorato al Messaggero. Ha scritto libri sui giovani, il lavoro e le donne: "Precari e Contenti", "La sfida degli Outsider", "Imprese da Favola", tutti con Marsilio. Ama nuotare e insegna  i Vini del Mondo per il Wine and Spirit Education Trust.

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