È il 4 gennaio e sfoglio pigramente la rassegna stampa, quando una notizia attira la mia attenzione. Gli economisti tedeschi sono preoccupati dall’improvvisa crescita nelle vendite di cosmetici: sarebbe indice di forte crisi economica. “Spesso non c’è nulla di frivolo in una donna che si prende cura di sé. Chi non riesce a comprarsi un’auto o una casa, si concede un piccolo lusso nella vita quotidiana”. Lo chiamano “Lipstick effect”.
Per assonanza mi torna alla mente un’intervista di Public Affairs ad Azadeh Moaveni, autrice di “Lipstick Jihad”, che già nel 2005 sottolineava come Tehran appartenesse a una nuova generazione. Il 60% della popolazione allora aveva meno di 30 anni e percepiva di vivere uno spazio pubblico disfunzionale, non riconoscendosi per nulla nel regime.
Il titolo stesso del libro di Moaveni identificava una forma di resistenza urbana (seme di prossima rivoluzione) nella ciocca di capelli, nello smalto e nel rossetto, che apparivano e scomparivano a seconda del contesto.
Jihad originariamente significa “sforzo”. Nella teologia islamica si parla di “grande jihad” e “piccola jihad”, ponendo innanzitutto l’accento sullo sforzo individuale di miglioramento del sé che influirà sul miglioramento della società.
“Lipstick Jihad” è semplicemente perfetto. Chi non può permettersi di compiere una rivoluzione, si concede una piccola azione di resistenza nella vita quotidiana: impugna la propria agency applicando, con costanza per decenni, un piccolo sforzo individuale, una piccola goccia di rivoluzione che andrà a sommarsi allo sforzo collettivo e sovversivo di una generazione ormai alla soglia dei 50 anni e dei loro discendenti.
Altri due giovani sono stati impiccati sabato all’alba, in un paese in cui una rivoluzione latente da decenni ha fatto alzare gradualmente l’asticella delle misure preventive fino ad arrivare ad emettere condanne a morte a raffica come deterrente contro la rivoluzione.