Memo

L’amica geniale in tv sembra meno geniale. E un po’ stereotipata.

Lila e Lenù due di noi, come si sarebbe detto una volta. Paurose, intrepide, impazienti, irose, gentili, altruiste, egoiste, passionali, mute. Parti del nostro cuore e delle nostre emozioni. Per questo con loro ci appassioniamo ridiamo trepidiamo. Per questo la bella, empatica, lettera pubblicata su Le Contemporanee è uno stimolo a mettere su carta reazioni e riflessioni liberate dal romanzo che la serie ha recuperato e rilanciato, seppur in modo diverso.

Quest’ultima, infatti, mi riferisco in particolare alla stagione di Luchetti, è un bellissimo lavoro, ottima regia e capacità di racconto. Ma di quale racconto parliamo? Su questo vorrei mettere l’accento. Ci sta che un testo ed una versione audiovisiva che lo riprende siano comunque due prodotti a se.

Di solito si paragona la qualità (il film non è all’altezza del libro – ed è cosa frequente – o una trasposizione registica è meglio di un’altra), ma cosa succede, al di là della valutazione complessiva su Costanzo o Luchetti, se la versione filmica ha un punto di vista difforme sull’essenza dei personaggi? Sul senso del viaggio dell’eroina? Davvero è solo un problema della solita ennesima fregatura in cui le donne (e viceversa?) cascano inseguendo maschi/partner inquietantemente interessanti (o interessanti proprio per la propria inquietudine), astrattamente passionali o algidamente sensuali, ma infantilmente irresponsabili?

Nella terza stagione dell’AG sembrerebbe un po’ così. Anzi sembrerebbe peggio di così. Perché i maschi infantili e mai cresciuti ma potenti nella loro aurea attrattiva (Nino) hanno il contraltare in maschi dolcissimi e accudenti (Enzo) o accudenti e fascinosi anche nei loro manifesti difetti (Pietro, Michele), comunque solidi pur nella loro capacità di esternare emozioni, o proprio per quella (piangono, soffrono…). Le figure femminili, invece, sono tutte vagamente o fortemente squilibrate. E comunque impenetrabili. Come potrebbe leggerle uno sguardo maschile.

Si torna allo stereotipo della donna instabile, mestruata?, meravigliosamente imprevedibile (Lila) o gelidamente inconscia dei propri desideri, che si fa agire dalle circostanze senza mai prendere in mano il proprio destino (Lenù). Questo è la serie, appunto.

Ma nel libro accenti, emozioni, scelte, bisogni, prendevano strade diverse. Qui si apre una divaricazione. Dello sguardo femminile (la supposta autrice femminile del volume) e maschile (il regista).

Il libro è la storia di due amiche. Una in grado di esprimere pathos, di metterlo in scena, di tirare fuori la propria energia, seppure in modo scomposto, ardendo di intelligenza e pulsioni senza sapere come controllarle, scagliandole come dardi infuocati contro chi le sta intorno. L’altra assiste affascinata ed incredula a questa messa in scena della potenza femminile.

Perché non ha le parole (la cosa più bella e meglio riuscita della serie sono proprio gli sguardi muti di Elena). Perché la vita le ruota intorno senza che lei riesca a muoversi, perché ha tutto dentro da qualche parte ma lei non sa dove, non riesce a trovare le emozioni i desideri e una lingua in cui tradurli. Si fa agire dalla vita senza prendere posizione, forte di ancore sicure che le permettono di andare avanti (l’amore/odio per la madre, lo studio, poi gli uomini che le stanno accanto, i figli a cui si aggrappa) ma senza una centratura. Guarda la vita scorrerle davanti agli occhi, vede la sua amica accendere fuochi, ma lei non sa neanche come muoversi nello spazio (anche questo la terza stagione della serie lo mostra bene, grande regia).

Il libro è la storia della vita, di come la vita ci cambia e di quanto possiamo o non possiamo modificare il suo corso, e il nostro destino.

La storia di Lila è a spirale, perché la sua energia scomposta provoca uragani ma anche momenti magici di felicità, onde che vanno e vengono, ma sempre dense di un senso ineluttabile di tragedia, un po Elena un po Medea, cercando di governare tutto e tutti, soprattutto se stessa, senza mai riuscire davvero a liberarsi tagliando il filo che la lega al suo passato (il rione), senza mai riuscire davvero ad acquisire il controllo, fino a sparire / soccombere. 

Elena fa il percorso inverso. E’ il suo personaggio al quale l’autrice affida il ruolo di eroina, nello sviluppo archetipico dell’azione. Il libro è la storia di una ricerca di se, del viaggio che la protagonista compie dalla totale povertà economica ed emotiva fino all’illuminazione della consapevolezza e alla finale pacificazione.

E l’elemento centrale, ai fini del nostro ragionamento, la cd “curva di fortuna”, è proprio l’incontro con il femminismo. Il suo allontanarsi da Pietro è frutto di un percorso potente, che attraversa in particolare il terzo volume del libro (ma non la serie) in cui Elena nel pensiero femminista (e forse nella scoperta di figure femminili altre rispetto a Lila e alla madre) scopre la propria voce, ridefinisce pezzo per pezzo la trama dei suoi desideri e improvvisamente incontra il suo “se”, la propria identità, e prende finalmente in mano la sua vita.

Apparentemente lei scappa per amore di Nino (questo l’inganno della trasposizione televisiva) ma in realtà lui è solo un espediente, assolutamente strumentale, perché è il culmine di un percorso di “autocoscienza” (per riprendere un termine in linea con gli anni dell’ambientazione del romanzo) che riguarda solo ed esclusivamente lei. 

I personaggi, in conclusione, sono quelli, così la storia. Ma la regia televisiva riscrive il romanzo con sguardo maschile, stringendo le dinamiche relazionali in una chiave lontana dall’originale, faticando a comprendere fino in fondo la ricchezza e trasformatività delle diverse personalità, che vengono rinchiuse in cliché di genere: l’uomo buono/cattivo, accudente/fedifrago, la donna squilibrata ecc. Tutto l’accento viene messo, soprattutto nelle ultime puntate della terza serie, sulle reazioni inconsulte e scomposte di Elena, che maltratta Pietro (con cui si tende a solidarizzare) mentre arde di passione per Nino.

Nel libro invece questo è un momento topico di liberazione, in cui l’eroina prende consapevolezza di se, della propria libertà, anche della propria bellezza, tagliando finalmente il cordone di dipendenza dalla sua amica geniale (e da tutti gli altri personaggi dal confronto coi quali lei traeva la sua soggettività), ed inizia a percorrere i primi passi da sola. 

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  • Flavia Barca

    Flavia Barca è una esperta di settori culturali e creativi. Svolge attività di consulenza e formazione per la pubblica amministrazione, l’università e istituzioni private realizzando progetti, analisi di scenario, piani strategici, studi di fattibilità. E’ consulente senior per l’Ufficio Studi Rai, componente del panel per la selezione del Marchio Europeo del Patrimonio, componente dell’Osservatorio di genere e del Consiglio Superiore del Cinema e dell’Audiovisivo presso il Ministero della Cultura, è nel board del progetto europeo Heriwell sul rapporto tra patrimonio culturale e wellbeing, è impegnata in progetti di sviluppo locale a base culturale. Presiede l’Associazione Acume da lei fondata.

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