Divinità e icone sul tappeto rosso di Venezia: un’allucinazione collettiva.

Qual è il rapporto fra pubblico e icone? 

Nel libro “Eymerich, l’inquisitore”, Valerio Evangelisti immagina una realtà dove le menti umane riunite in uno sforzo collettivo, hanno il potere di produrre manifestazioni corporee, incluse divinità.

Camminando in mezzo alla folla urlante del Festival di Venezia, in lacrime per l’arrivo di Harry Styles, non si può fare a meno di pensare che, in effetti, è la forza dell’adorazione collettiva a far apparire i divi, a renderli reali, apparentemente.

In altre parole, i divi non possono esistere senza un pubblico che li guarda. Che senso avrebbe camminare su un tappeto rosso, se non ci fossero persone a fotografarti e urlare il tuo nome? 

Non so se è sempre stato così e se sia effettivamente l’unico, ma non credo che ad altri eventi mondani come il Met Gala, gli Academy o Cannes, sia possibile fare le poste sul red carpet, come, vi assicuro, è stato fatto per Harry Styles.


foto di Martina Rocchi

Il festival da questo punto di vista rappresenta una dimensione strana; potenzialmente tu, con i tuoi i jeans e maglietta, ti puoi ritrovare in sala con Florence Pugh vestita di Valentino. Non parlo di un’accessibilità assoluta e reale (i costi del Lido di Venezia sono tutt’altro che accessibili), ma parlo di una chiara volontà di creare un effetto per cui, per 10 giorni, le stelle sembrano a portata di mano, rimanendo però pur sempre stelle.

foto di Martina Rocchi

La necessità di toccare le stelle e di vederle, è forse legata al fatto che questi divi hanno un valore per chi li adora, in particolare, gli attribuiscono un significato, lo stesso che si attribuisce alle storie di cui sono protagonisti.

Fin dalla notte dei tempi le storie contengono infatti i travagli di personaggi che servono a farci riflettere; manifestazioni di noi stessi, dei nostri desideri, delle nostre paure e dei nostri incubi. 

I divi, tanto quanto le storie in cui sono inseriti, non sono altro che creature che escono dalla nostra mente; in parte ci assecondano, in parte forse lottano con l’immagine che abbiamo proiettato di loro.

Don’t worry darling

Prendiamo per esempio, l’affair Don’t worry darling, “the movie that does feel like a movie.” In assenza di un film con una storia veramente incisiva, è stata letteralmente fabbricata una trama ricca di colpi di scena degna di una saga mitologica greca, che riflette, più del film, problematiche insite nell’universo Hollywoodiano. 

La storia inizia prima del festival. Olivia Wilde aveva inizialmente preso Shia Labeouf come protagonista invece che Harry Styles, che ad un certo punto, ha smesso di lavorare al film. Olivia Wilde ha spiegato che il motivo di tale allontanamento era legato al fatto che la sua priorità è far sentire le persone al sicuro e a proprio agio sul set e Labeouf aveva un metodo recitativo che poco si allineava con tale priorità; ricordiamo che Labeouf è stato denunciato dalla musicista FKA Twigs, con cui ha avuto una relazione di un anno, per abuso. Labeouf ha risposto inviando a Variety, dei messaggi e un video dove Wilde si contraddice; non è lei che ha allontanato lui, ma lui che se ne è andato, al punto che Wilde lo ha pregato di tornare, alludendo al fatto che era Florence Pugh a non volerlo sul set e che lei avrebbe trovato il modo di convincerla. Questa situazione, è la base che nutre la voce secondo cui Florence Pugh non faccia eventi promozionali per il film, e non perché è impegnata a girare Dune-come lei ha detto.

C’è poi la questione divorzio di Olivia Wilde. Qui la voce, smentita ufficialmente da Wilde, è che lei abbia tradito suo marito con Harry Styles sul set; marito da cui sta attualmente divorziando. La voce è stata alimentata anche dal fatto che, durante la promozione del film al CinemaCon, a Wilde sarebbero stati consegnati i documenti relativi alla custodia dei figli sul palco.

Per finire, lo sputo. In un momento durante i saluti finali, in occasione della proiezione della prima a Venezia, Harry Styles, avrebbe sputato addosso a Chris Pine. Il motivo sarebbe legato ad un un comportamento sardonico di Pine durante le non proprio sagaci dichiarazioni di Styles sul suo ruolo nel film.

L’aspetto più affascinante di questa storia è che l’unico valore che ha è quello che chi la segue e che spende tempo a ricamarci sopra gli attribuisce. Tutti questi retroscena in gran parte ovviamente smentiti dagli stessi protagonisti, sono frutto della fantasia dei fan, una sorta di allucinazione collettiva. È la folla degli ammiratori adoranti ad aver scritto la sceneggiatura, ha distribuito le parti e si è occupata della direzione, riempendo i social con meme e montaggi delle conferenze stampa e del video dello sputo.

Un’allucinazione collettiva; che cosa riflette?

Olivia Wilde è una regista che sta riscuotendo un discreto successo. Il suo film, Don’t worry darling, è la storia di una coppia, con un’estetica pop e una trama che oscilla fra il thriller e il cerebrale. Il cast è stellato, con Florence Pugh in particolare, il nuovo astro Hollywoodiano, che vanta già una collaborazione con oscar nominee Greta Gerwig e la sua interpretazione in Midsommar.

C’è dietro l’aspettativa (delusa) che produzioni con talenti femminili siano in qualche modo illuminate dalla luce della giustizia e dell’uguaglianza? O si gode nell’immaginare due personalità Hollywoodiane femminili che litigano? Come si gode nel vedere una donna che “sbaglia”?

Forse, banalmente, c’è il bisogno di immaginare che le icone si comportino in modo imperfetto e contraddittorio, come gli umani, esattamente come accade nei miti greci.

The Matchmaker

Discorso opposto per il documentario di Benedetta Argentieri, The Matchmaker, dove non incontriamo un’icona, ma una persona vera: Tooba Gondal, nota come the ISIS Matchmaker. Scappata da Londra a 20 anni, si è unita allo Stato Islamico, ed è accusata di aver reclutato sui social network donne occidentali come spose per i miliziani dell’ISIS. L’intervista si tiene dentro un campo di prigionia in Siria dove erano state portate le donne e i bambini catturate dopo la vittoria dell’esercito di liberazione Curdo. 

The Matchmaker è un lavoro coraggioso che esplora un tipo di personaggio di cui molto si dice e si immagina, ma poco si sa, perché raramente le donne islamiche si trovano un microfono addosso, sugli schermi occidentali.

Una donna sottomessa, che si copre perché plagiata dalla religione e dagli uomini? Una vittima dello Stato Islamico?

The Matchmaker è la storia di una persona a cui viene chiesto se vuole che la sua storia sia raccontata. 

Una persona che infatti, ha un controllo marcato sulle parole che dice, sulle informazioni che ci dà. Benedetta Argentieri, in collaborazione con Maria Edgarda Marcucci, fa una cosa che nella nostra realtà, fatta di individualismo che sfocia in manie di protagonismo è rara: lascia parlare il soggetto. 

Non c’è dubbio che la storia che esce dalla bocca di Tooba, sia la versione di Tooba; rispetto a tutto quello di cui è accusata, non ricorda nulla, non sa; di quello che sa si è pentita. Quello che le due registe fanno, per aiutare noi spettatori a contestualizzare criticamente il soggetto è intervistare altre donne, altre persone, raccontarci la storia dello Stato Islamico, mostrarci i tweet di Tooba. 

La versione di Tooba non esiste in uno spazio tempo unilaterale, ma in una dimensione mosaico, complessa, ma che ci permette di rapportarci a Tooba né come giudici in cattedra, né come ascoltatori passivi; i nostri preconcetti vengono sfidati, ma l’autonomia di Tooba non diventa oggetto di ammirazione.

Blonde 

A Norma Jeane Baker alias Marilyn Monroe, invece non è stato chiesto mai nulla, Blonde, l’adattamento cinematografico del romanzo di Joyce Carol Oates, che racconta la vita di Marilyn, è il racconto (un po’ morboso) di una donna che non ha mai avuto voce in capitolo rispetto alla sua vita e che a distanza di anni dalla sua tragica morte, tutt’ora viene ancora sfruttata in prodotti mediatici, come appunto l’ultima fatica di Netflix. 

Norma è una bambina senza padre, mai amata da sua madre; una ragazza che vuole fare l’attrice, ma viene presa e trasformata in sex symbol, in una donna da salvare, in una musa: maschere che le vengono affibbiate dal pubblico e dagli uomini che la circondano, fino all’ultimo, dove ormai è ridotta ad un mero pezzo di carne. 

Norma ha interpretato magistralmente un’icona, un oggetto del desiderio, un simulacro femminile. Un’icona che è sopravvissuta alla morte stessa. Norma Jeane è stata divorata dal suo pubblico, al punto che neanche dopo la morte riesce a riposare in pace; continuiamo ad avere bisogno di lei, di raccontare la sua immagine e di utilizzare le sue fattezze, sempre senza lasciarle alcuna voce in capitolo. E questo aspetto è un problema che rende tutte le storie che riguardano e hanno come oggetto Marylin Monroe, mai veramente riuscite.

Il rapporto fra pubblico e icone, immagini mentali, è quindi un rapporto alla pari?

Nella storia di Evangelisti, le divinità appaiono solo finché le menti delle persone continuano a crederci. 

Quella fra pubblico e icone è forse un conflitto. Senza il pubblico l’icona svanisce, ma cosa rende una personalità un’icona, se non la sua capacità di capire che cosa può far presa sul pubblico? Il problema subentra appunto nell’equilibrio fra assecondare quello che il pubblico vuole e controllare la narrazione su sé stessi, tenendo presente che non tutte le personalità note vogliono diventare icone e non tutto deve per forza essere un simbolo.

Ma, a quanto pare, è evidente che la maggior parte delle persone ha un bisogno disperato di icone, da venerare o da odiare, da consumare, per dormire meglio la notte.

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CONTRIBUTOR

  • Martina Rocchi

    Laureata in politica e comunicazione. Appassionata di quest’ultima, ha maturato questo interesse nella speranza di riuscire a farsi capire da qualcuno. La sua lingua nativa sono i meme, ma riesce comunque a esprimersi in italiano e in inglese

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