No Shave Movement. Lotta ai canoni di bellezza patriarcali tra stigma sociale e libertà espressiva.

Scrivere di peli non è affatto facile, specie quando sei una donna o una persona socializzata tale. Ti avventuri in un ambiente scomodo, permeato di tabù e giudizi lapidari, di accuse sulle motivazioni che ti hanno spinta a non nasconderti: ma perché li hai lasciati crescere? Perché li mostri? Perché ti imponi così?

Facciamo un passo indietro di qualche secolo e cerchiamo di capire cos’è il No Shave Movement e perché è tornato ancora una volta alla ribalta.

I fatti sono questi: la depilazione è sempre esistita. Così come sono sempre esistiti i canoni estetici, o standard di bellezza, che hanno plasmato e deformato i rapporti

sociali e la cultura dominante fino a oggi. Puoi non ricorrervi, ma devi essere consapevole che la strada per la tolleranza a te rivolta sarà più ripida e per nulla scontata. 

Un aneddoto (non so quanto) divertente in merito ce lo riporta la biografia del noto critico d’arte John Ruskin, vissuto in epoca vittoriana. Quando la moglie Effie Gray gli si mostrò durante la notte di nozze, il critico scappò a gambe levate alla vista dei peli pubici. Questo per far capire come l’ideale glabro presente nelle statue avesse permeato la concezione del corpo femminile, così come le fantasie degli uomini vittoriani, terrorizzati dal femminino.

I peli non sono stati un problema sociale fino alla globalizzazione e all’esplosione della pubblicità e del porno mainstream. Prima degli anni ottanta infatti, alle donne veniva implicitamente ‘consigliato’ di depilarsi così da far felice il partner e di

conseguenza loro stesse, ma non si trattava di un vero e proprio tabù. 

Con il ’68 i peli tornarono alla superficie -e alla luce del sole- anche grazie al femminismo; le donne di allora preferivano un look più naturale e continuò così fino alla fine del decennio successivo. Le copertine di Playboy documentano con chiarezza come, anno dopo anno, peli pubici, ascellari e non solo, iniziarono progressivamente a sparire proprio durante l’epoca patinata dell’ostentazione. Le top model sfilavano glabre e lucide, regredendo a quella che Bel Olid, scrittrice e attivista no shave, definisce nel suo necessario saggio, Contropelo, “una infantilizzazione della donna adulta”. 

Il porno mainstream ha fatto il resto. Erroneo sostituto di una corretta educazione sessuo-affettiva, spinse uomini e donne a identificare desiderabilità e bellezza nella femminilità glabra e libera dall’orpello della peluria. Era infatti necessario per l’occhio maschile vedere tutto, in ogni anatomico dettaglio, cosicché la pellicola di turno non venisse tacciata di essere softcore, categoria porno che i rapporti li simula.

La donna quindi doveva regredire a prepubere, liscia fin quasi a sparire, rinunciare alla maturità simbolicamente testimoniata dai peli. E per raggiungere tale canone e restarci dentro avrebbe dovuto -e dovrebbe tutt’ora- soffrire. Come se essere donna non bastasse già! La depilazione, specie l’epilazione, comporta sofferenza. Fisica prima di tutto, doppiamente per coloro dotate di peluria irsuta e derma sensibile, ma anche economica. Sono decine di migliaia i dollari che una donna spende in prodotti per la depilazione nell’arco della vita, intesi quasi come beni di prima necessità, più dei prodotti per la salute mestruale come gli assorbenti. Primo fra tutti il rasoio, usato in media due volte alla settimana. 

L’industria dell’estetica capitalizza così a livello globale dagli anni ’80, servendosi di suddetto standard per guadagnare e crescere. Un canone che spinge non solo le donne, ragazze e addirittura bambine a depilarsi pur di non sentirsi ‘anormali’, ma che fomenta le loro insicurezze normalizzando una pratica che di normale non ha nulla, e che anzi, udite udite, fa male. La depilazione risulta infatti tra i primi responsabili dei ricoveri in pronto soccorso per via di ferite o infezioni nella zona vulvare: abrasioni, cicatrici, tagli, peli incarniti. Sul problema, ginecologhe ed estetiste si scornano tutt’oggi. Eppure è incredibile come le donne preferiscano seguire i pareri positivi delle seconde rispetto a quelli delle prime. 

Bel Olid parla addirittura dei casi in cui, per risparmiare ulteriore stress alle

adolescenti, alcuni professionisti consigliano alle loro madri di procedere direttamente con la depilazione, a prescindere dai danni che tale scelta implicherà. Quando non sono le madri stesse a intervenire, spingendo le figlie a depilarsi. Sia perché assoggettate già di loro al canone, sia perché preoccupate delle reazioni sociali al corpo delle ragazzine e all’insicurezza e all’ansia da prestazione che comporterebbe. Perché la salute è importante, ma essere tollerate in società lo è ancora di più, soprattutto in una, la nostra, dove le donne vengono giudicate e criticate qualsiasi scelta facciano, non solo estetica.

Negli anni ’90, dive di Hollywood come Madonna, Kate Winslet e Julia Roberts hanno iniziato a mostrare timidi ciuffi di peli ascellari sui red carpet o durante gli shooting fotografici. Si stava cercando di sovvertire una norma, forse anche con l’intenzione di farne una nuova moda, all’epoca. Purtroppo successivamente, con gli anni 2000 e l’estrema oggettificazione del corpo sessualizzato durata un decennio, tale tentativo venne meno nonostante individuali prese di posizione (ricordiamo Lourdes, la figlia di Madonna, che mai li ha nascosti).

Con l’arrivo degli anni 2010 e i primi 2020 però, la normalizzazione del pelo femminile ha trovato nuove sostenitrici, che non si sono limitate a farne una moda, ovvero senza un contenuto politico solido. Le donne insomma non si depilano per andare contro alla norma e risultare alternative a non si sa bene chi, ma al contrario rivendicano l’intenzione, tramite appunto il No Shave Movement, di poter vivere senza stigmi sociali ANCHE con i peli. Tale messaggio è alla base del movimento. E da questo punto di vista il cyberspazio social ha offerto un contributo mai visto prima, in grado di diffondere il messaggio e la sua potenza. 

Una presa di posizione recente è stata quella della top model Emily Ratajkowski, che posando per Harper’s Bazar ha mostrato i peli e scritto un saggio per motivare le sue posizioni in merito. Perché sì, siamo ancora al punto in cui dobbiamo spiegare come mai non ci depiliamo come fanno le ‘donne normali’. 

Tale libertà però nasconde anche un privilegio. Se, come abbiamo visto, le donne sopracitate hanno avuto spazio e riconoscimento pubblici per la loro scelta, va riconosciuto che tutte godono di una serie di vantaggi, rientrano ovvero nel canone di bellezza stabilito: hanno corpi conformi e abili, sono esteticamente curate e possiedono stabilità economica sufficiente per permettersi trattamenti di bellezza fuori dalla portata della donna media. 

Ciò significa che se sei già bella di tuo la tolleranza ti verrà concessa, anche se a fatica. Ma se invece non lo sei convenzionalmente, se possiedi un corpo grasso e disabile, se hai peluria irsuta e diffusa, allora per la società meriti solo l’ombra della vergogna. Poco importa se ti sei stancata di soffrire, di curare le cicatrici, di dare fondo al conto in banca per la mensile o settimanale visita al centro estetico e di rinunciare alle vacanze per la vergogna. Vieni percepita come un glitch, un errore, un insulto a chi vuole andare in giro beandosi di incontrare magari una bella ragazza a cui fischiare e invece si trova davanti una donna pelosa da disprezzare. Ti chiamano scimmia, uomo mancato, mostro, zitella inchiavabile, strega, solo per fare qualche esempio.

E in Italia? Anche in territorio nostrano il messaggio No Shave è arrivato, non senza scatenare campagne di hating e incredulità. L’accusa è quella di superficialità, il che fa sorridere dal momento che l’atto di depilarsi, di contro, non è tradizionalmente associato a una lotta politica. Altra accusa è, manco a dirlo, quella di cercare attenzione quando non si ha altra maniera per farlo. Aggiungerei della peggiore, viste le minacce, gli insulti e il bullismo -non solo cyber- rivolto a chi si mostra senza problemi. 

Un errore in cui si cade spesso, e lo dico da attivista No Shave, sta nel tollerarti pretendendo al contempo che una volta smesso tu debba rinunciare per sempre alla depilazione, insomma non depilarti più, sennò risulti incoerente, trasmetti l’idea di aver ceduto al patriarcato, di non essere credibile, di fare l’ipocrita. 

La performatività nei confronti di chi compie una scelta in sé naturale e innocua, percepita però come radicale e, per assurdo, addirittura coraggiosa (!) non è altro che una rinnovata forma di controllo oppressivo e sessista. Non è affatto detto che un’attivista no shave debba essere depilata, vaginomunita e donna. Può essere un uomo, può avere un corpo non conforme, può essere depilata o non depilata solo in alcune zone.

Tra le compagne meritevoli di aver preso pubblicamente posizione, anche a livello mediatico contro lo stigma del pelo, il quale rientra perfettamente sotto l’ombrello del body shaming, voglio ricordare: la modella e poeta Giorgia Soleri, l’educatrice sessuale Giulia Zollino e l’attivista fat acceptance e content creator Dalila Bagnuli. Tutte hanno subito attacchi molto pesanti per essersi esposte. 

Il messaggio è chiaro? Se sono davvero libera, perché dovrei rientrare in un canone pena la gogna pubblica, la derisione, il giudizio? Si tratta allora di una libertà fittizia, così radicata da spingere le donne che si depilano a ‘giustificarsi’ con noi

dicendo “Ma io mi depilo per me stessa, perché voglio, perché mi piaccio così”, riducendo quella che è una lotta politica collettiva a mero gusto individuale. Sorvolo poi su quelle che ci insultano spaventate. Ridurre tutto a gusti personali ne svaluta il potere di cambiamento nella società. Non bisogna certo giustificarsi per le proprie scelte estetiche quando ci compare dinnanzi un modello differente: semplicemente dobbiamo accettarne la validazione, andare oltre l’apparenza. E smettere di guardare e guardarci tramite lo sguardo altrui.

Chi non si depila può farlo per sé stessa certo, oppure per mandare un messaggio facendo col suo corpo politica: questa sono io e tu, chiunque tu sia, non hai il diritto di giudicare quello che vedi solo perché sei stato cresciuto con un’immagine univoca della donna, perché ti fa epidermicamente ribrezzo il pelo femminile o perché non capisci come si faccia a vivere comunque, ad avere una vita sessuale comunque. 

I canoni si evolveranno sempre. A noi tocca decostruirli. Con fatica, ma ce la faremo.

Foto di Billie su Unsplash

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CONTRIBUTOR

  • Transfemminista, attivista lgbtqiapk+ e militante pro-choice, Lou è una persona transgender non binaria. Dopo la laurea in Beni Culturali ha iniziato a formarsi in gender studies, cultura queer, feminism and social justice. Ha conseguito un corso in Linguaggio e cultura dei CAV. Ha abbracciato la campagna "Libera di abortire" e collabora con diversi collettivi transfemministi. Fa attualmente parte di Gaynet Roma Giovani. È una survivor di violenza. Attualmente è content creator, moderatrice e contributor. Suoi obiettivi sono: continuare a svolgere formazione nelle scuole e diventare giornalista. 

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