Perché l’agricoltura ci riguarda tutte e tutti

Dalle finestre di casa mia si vede Place Luxembourg a Bruxelles e mercoledì scorso 31 gennaio decine di trattori hanno parcheggiato intorno e dentro il piccolo parco di fronte. I miei vicini belgi (io non c’ero), tutti ferventi europeisti e tendenzialmente ecologisti sono scesi in serata armati di birre, frutta e salsicce a discutere con loro in un’atmosfera animata ma piuttosto tranquilla e alcuni agricoltori hanno anche trovato ospitalità.

Era difficile prevedere che il giorno dopo la zona, e in particolare la Place Luxembourg adiacente alla grande spianata del Parlamento sarebbe stata il centro di azioni violente culminate con la demolizione di una delle statue rappresentante un operaio siderurgico, che si trovano sul piedestallo della statua di John Cockerill, industriale dell’acciaio celebrato per i suoi successi; successi che sono anche quelli del Belgio, che nel XIX° secolo era una delle primissime potenze economiche e industriali d’Europa. Ovviamente, dubito fortemente che qualcuno venga ritenuto responsabile dei danni; a differenza di ciò che succede con i giovani manifestanti ecologisti, gli agricoltori/trici in quanto tali godono di una notevole indulgenza da parte dei poteri pubblici, al di là dei loro metodi.

Comunque, la situazione si è tranquillizzata e i trattori sono tornati a casa, come anche in Germania e in Francia, mentre in Italia la protesta continua e pare essere stata presa in mano dal settore più radicale, capeggiato dall’ex leader dei forconi, che è stato addirittura invitato ad andare a Sanremo, dandogli una visibilità e una rappresentatività che sicuramente non ha sul terreno e passando il messaggio che tutte le loro rivendicazioni sono giuste.

Le ragioni della protesta hanno caratteristiche diverse e punti in comune nei vari paesi. I punti in comune sono numerosi ma pochi hanno davvero a che vedere con il Green deal, il grande piano della UE finalizzato a rendere l’economia e la società europee a prova di clima. Grazie a una propaganda manipolatoria e colpevole finanziata profumatamente da lobby fossili sfruttata dalla destra e a una stampa per lo più superficiale e antieuropea, sta passando l’idea che la responsabilità del malessere agricolo riviene alle politiche europee introdotte per la transizione verde. Ma questa è una bufala di dimensioni ciclopiche.

Vediamo perché. Il Green Deal in agricoltura, annunciato con il simpatico nome di “dalla Fattoria alla forchetta” (From Farm to Fork) nel maggio del 2020, aveva l’obiettivo di rendere sistemi alimentari e produttivi europei più sostenibili di quanto lo siano oggi coinvolgendo l’intera filiera alimentare, dalla produzione al consumo, passando naturalmente per la distribuzione.

Purtroppo, la maggior parte del vasto programma è semplicemente rimasto lettera morta, demolito con il contributo delle stesse organizzazioni e lobby che oggi guidano in molti paesi la rivolta e abilmente recuperate in chiave antieuropea dalla destra. E con sistematico impegno, le proposte della Commissione non solo sui pesticidi, ma anche sull’aumento delle coltivazioni biologiche, sul ripristino della natura, sulle emissioni industriali, sugli imballaggi, sono tutte state di molto ridimensionate e il grande problema delle emissioni agricole rimane praticamente non toccato, caso pressoché unico tra i settori produttivi. È importante precisare che tutte le norme proposte non erano basate su un’astratta ideologia, ma su accurati studi e compromessi raggiunti in lunghe consultazioni soprattutto con le categorie interessate; e tenevano conto del fatto che dall’agricoltura derivano più del 30% delle emissioni, la maggior parte dell’inquinamento da ammoniaca e che pesticidi, allevamenti e culture intensive hanno effetti gravi sulla salute, sulla qualità del cibo, sulla biodiversità. L’agricoltura insomma non è un affare di una corporazione agguerrita ma ci riguarda tutti e tutte.

Le difficoltà del settore hanno invece molto a che vedere con il sistema che la Politica Agricola Comune ha costruito dagli anni ’60 ad oggi con regole che hanno progressivamente rinazionalizzato la gestione dei fondi e non è stata toccata davvero dal Green deal

La Politica Agricola Comune assorbe il 30% del bilancio della UE; è bene sottolineare che chi decide sui prezzi agricoli, sui prelievi, sugli aiuti e sui limiti quantitativi è il Consiglio (secondo l’art. 43 del Trattato sul funzionamento dell’Unione) e quindi dei ministri dell’Agricoltura, che agiscono da tempo in strettissima collaborazione con le potenti lobby agricole, in particolare Copa-Cogeca, dominate dall’agroindustria e dai grandi produttori e che hanno un’influenza enorme sulla Commissione e sul parlamento. In altre parole, quando si dice che a Bruxelles non si ascoltano gli operatori si dice una totale falsità. Il problema è che se ne ascoltano solo alcuni. Non è un caso che l’80% dei sussidi vada al 20% dei produttori e che da sempre la logica della PAC sia stata quella del produrre sempre di più, con l’indispensabile aiuto di pesticidi e fertilizzanti, spesso derivati dal petrolio, e questo rende ancora oggi il settore fortemente dipendente dai combustibili fossili.

È questo il sistema che schiaccia sempre di più i piccoli produttori e che non premia per nulla chi vorrebbe fare una scelta di sostenibilità e mantiene larghe zone di sfruttamento e discriminazione, ivi inclusa verso le donne, che rappresentano una parte importante della manodopera e una percentuale crescente (siamo intorno al 30%) degli imprenditori; è questo il sistema che sta arrivando ad esaurimento e resiste furiosamente al cambiamento invece che pretendere di essere aiutato a realizzarlo. Tutti sono complici in questa situazione: tutte le forze di maggioranza e anche il PD hanno sempre sostenuto le decisioni e le riforme della PAC, a differenza dei Verdi, che si sono sempre battuti per una PAC che sapesse remunerare adeguatamente la qualità della produzione e dei redditi degli agricoltori/trici e il rispetto per la biodiversità e per gli animali. Perché come si sa su una terra arida non cresce nulla.

Come sostengono molti agricoltori e agricoltrici che non andranno a Sanremo ma si battono da anni per una riforma della PAC, rendere l’agricoltura europea meno basata su pratiche intensive in energia, acqua, pesticidi in una parola più sostenibile, meno dipendente dalla grande distribuzione, e quindi meno industriale e più vicina al consumatore/trice è l’unico modo per salvarne la qualità e la sostenibilità economica. Ed è paradossale che quelle stesse forze che hanno contribuito a portare il sistema al collasso si ergano oggi a paladini degli agrocoltori/trici in lotta.

Insomma, la giustificata rivolta di molti agricoltori/trici contro la PAC è stata abilmente trasformata in rivolta contro il Green Deal, in linea con gli interessi dell’agroindustria che ha guadagnato miliardi su un modello produttivista, basato su allevamenti e coltivazioni intensivi e fossili che non è più sostenibile, e della destra populista che vede nella negazione della crisi climatica e dei suoi effetti un facile modo per raccogliere consenso.

La richiesta di ottenere sempre più sussidi e di non intervenire sulla crescente difficoltà prodotta dai cambiamenti climatici (6 miliardi di danni nel 2023) agendo sulle sue cause e rendendo l’agricoltura più resiliente, è quindi insostenibile per le casse pubbliche ma anche per lo stesso settore agricolo.

Le proteste che bloccano le nostre strade vanno perciò affrontate con ragionevolezza ed empatia perché tantissime persone non riescono più a sostenere la fatica e i costi di un’attività che è indispensabile per tutti e tutte: ma senza correre dietro alla propaganda di chi pensa che ci possa essere un’agricoltura fiorente in un ambiente distrutto e che l’agricoltura possa continuare a considerare animali e piante come ingranaggi in una fabbrica.


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CONTRIBUTOR

  • Monica Frassoni

    Ambientalista, femminista, esperta di energia. Laureata in scienze politiche, nel 1987 è stata eletta segretario generale della Gioventù Federalista Europea e si é trasferita a Bruxelles. Dal 2009 al 2019 è stata Co-presidente del Partito Verde Europeo. Presiede dal 2011 la European Alliance to Save energy e dal 2013 il European Centre for Electoral Support.

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