Il 14 luglio il Comitato delle Nazioni Unite per eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW) si è espresso su un caso avvenuto in Spagna, definendo una serie di manovre, protocolli ed atteggiamenti subiti da una partoriente come un caso di “violenza ostetrica”.
A monte c’è la vicenda di una donna spagnola, recatasi in ospedale a 38 settimane di gravidanza perché le acque non si erano ancora rotte. Da questo ricovero parte un’induzione del travaglio accompagnata da numerose ispezioni vaginali (il tutto senza chiedere il consenso della donna) e sfociata in un cesareo effettuato sulla donna a cui erano state legate preventivamente le braccia al letto.
Al punto da non permetterle di abbracciare il neonato, allontanato dalla madre immediatamente dopo la nascita. La donna ha riportato un disturbo da stress post-traumatico, minimizzato dalle autorità spagnole a cui si era rivolta inizialmente, ma riconosciUto dal Comitato delle Nazioni Unite.
Hiroko Akizuki, membro della CEDAW, ha dichiarato che “Gli Stati membri hanno l’obbligo di prendere tutte le misure necessarie per modificare o abolire non solo leggi e regolamenti in vigore, ma anche pratiche e usanze che costituiscono violenza ostetrica”.
Di violenza ostetrica si parla sempre troppo poco. Molto spesso le donne non hanno gli strumenti per capire se ne sono state vittime, e si limitano ad essere grate di aver attraversato indenni il momento della venuta al mondo dei loro figli.
La violenza ostetrica si configura come una serie di abusi verbali e fisici subiti durante il parto e più in generale in ambito ginecologico e ostetrico, ed è riconosciuta come pratica lesiva dei diritti umani da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Include ingerenze sul corpo della donna, manovre e procedure mediche dannose (come la manovra di Kristeller, attualmente vietata in alcuni Paesi come la Gran Bretagna), ma anche interventi effettuati senza il consenso della donna come l’episiotomia, la mancata accettazione delle richieste della donna (ad esempio quando viene negata – per vari motivi – l’epidurale), l’allontanamento di figure di supporto come il padre del nascituro ed aggressioni verbali.
Un’indagine Imagine Euro effettuata in Italia tra il marzo 2020 ed il febbraio 2021 sulla qualità della cura fornita alle donne durante il parto, commissionata dall’OMS, dimostra che il covid ha in molti casi contribuito ad esacerbare questa situazione.
Su un campione di 4824 donne intervistate il il 78.4% non ha potuto avere il proprio partner accanto, il 39.2% ha dichiarato di non essere stata consultata sulle scelte mediche relative al proprio parto, il 24.8% di non essere stata trattata con dignità e il 12.7% ha riportato di aver subito dei veri e propri abusi.
In America Latina diversi Paesi si sono mobilitati per la creazione di strutture legali adeguate per affrontare questa problematica (lo spiega bene il recente volume “Obstetric Violence. Realities and resistance from around the world” a cura di Angela N. Castaneda, Nicole Hill e Julie Johnson Searcy edito da Demeter Press in Canada).
In Italia invece non esiste ancora una legge sulla violenza ostetrica e ginecologica, nonostante il nostro Paese abbia ratificato la Convenzione di Istanbul e la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (che includono l’obbligo di protezione dei diritti riproduttivi delle donne) e nonostante la risoluzione 2306 del Consiglio d’Europa che richiede agli Stati membri di assicurarsi che l’assistenza alla nascita sia fornita nel rispetto dei diritti e della dignità umana.
Come dichiara Alessandra Battisti nell’inchiesta di Alice Facchini pubblicata su l’Essenziale del 9 luglio 2022: “I danni sul corpo della donna causati da interventi inappropriati vengono giustificati con la necessità di tutelare la vita del bambino.
In Italia c’è ancora l’idea che la donna che partorisce debba soffrire, come se la maternità fosse naturalmente un percorso di dolore: manca la consapevolezza al diritto di vivere il parto come un’esperienza positiva”.
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