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Imprenditoria femminile: per lo sviluppo di capacità creative a beneficio dell’intera comunità

Il Manifesto “Start WE up – Accendiamo l’imprenditoria femminile”

Marina Calloni, professoressa di Filosofia politica e sociale Università degli Studi di Milano-Bicocca

Imprenditoria femminile: per lo sviluppo di capacità creative a beneficio dell’intera comunità

Rafforzare l’imprenditoria femminile significa ripensare il senso della giustizia sociale e quindi i fondamenti stessi dello Stato sociale nel suo complesso. Significa costruire quelle strutture sociali che permettano alle donne di progettare e gestire imprese, sviluppando le loro capacità imprenditoriali con un beneficio per l’intera comunità.

L’imprenditoria femminile non riguarda infatti solo il fattore economico. Significa piuttosto dare forma a potenzialità represse o negate da pregiudizi sociali, da stereotipi culturali, da auto-inibizioni, spesso dovute al non aver fiducia nelle proprie aspirazioni.

Dare corpo all’imprenditoria femminile – grazie a linee guida e indicazioni condivise – significa mettere le donne nelle condizioni per poter inventare/ scegliere un’occupazione che non rientri necessariamente in quei mestieri che le vogliono impiegate in lavori altrui, bensì che diventi datrice di sé.

Si tratta però di una forma di “autonomia” relazionale, che richiede – oltre che competenze specifiche e la disponibilità ad apprendere e rischiare – modalità di interazione rispettose, spesso negate dall’arroganza assertiva di modelli maschili.

Significa sostanziare nuove prassi di imprenditorialità – urbane, rurali, digitali, etc. – che affondano le proprie radici nella storia stessa dei movimenti internazionali delle donne, tanto in Occidente, quanto nel Sud globale.

Tali pratiche non prevedono distinzioni fra cittadine locali e migranti. Sono infatti spesso donne migranti – nonostante le molteplici difficoltà dovute anche al fatto di non poter “contare” attraverso il voto e dunque incidere sulle decisioni politiche – a trovare nell’autonomia imprenditoriale un elemento fondamentale per la propria rappresentanza/ rappresentazione sociale, individuando una ragione al proprio progetto migratorio. Le culture d’origine diventano così spesso per loro un fattore di ispirazione lavorativa nella prospettiva di una riqualificazione professionale.

L’imprenditoria femminile implica infatti l’idea di una cittadinanza attiva, partecipativa e inclusiva, radicata nel territorio circostante con cui condivide finalità. Non è li per caso, ma per una politica della presenza, della differenza e della trasformazione.

Essere imprenditrice significa investire su sé stesse, su idee creative e progetti trasformativi. Significa attingere anche dalle proprie esperienze di vita per dare anche alla tradizione un significato diverso. Casi di successo (come ad esempio nel campo della moda, ristorazione, o agricoltura) indicano come il ripensamento di tradizioni familiari possano essere riconcepite in un’ottica di sostenibilità, al di là dell’economia industriale.

Essere “padrone di sé” implica anche l’accettazione dei rischi che una nuova attività può comportare.

Il successo di un’impresa dipende dunque anche dal saper ben dosare i diversi ingredienti: idea iniziale, progettazione, piano finanziario, valutazione dei rischi, buoni consiglieri/e, oculata scelta di collaboratrici/ori, capacità di affrontare le difficoltà gestionali che si presenteranno.

La formazione – in senso lato – è dunque fondamentale sotto diversi punti di vista.

In particolare, l’università può giocare un importante ruolo in tale processo costitutivo, sviluppando certamente corsi di educazione finanziaria o insegnamenti ad hoc, contrastando il bias che vede ancora una presenza minoritaria delle studentesse nelle materie STEM. Ma non sono sufficienti.

Essere imprenditrice richiede infatti molteplici abilità e conoscenze anche di tipo sociale, psicologico e culturale, come ad esempio per la gestione delle risorse umane, per il rapporto con il territorio in cui l’azienda è locata, per le relazioni con i committenti di Paesi lontani. Fondamentale è inoltre la capacità di formare il gruppo di lavoro e l’abilità di cooperazione, condividendo obiettivi e fiducia.

L’università può così sviluppare azioni di terza missione con momenti di apprendimento esperienziale. Le future imprenditrici possono infatti avere scolarità differenti, che però non precludono certamente la possibilità di sviluppare progetti lavorativi. L’imprenditoria è infatti costituita da diversi gradi di investimento, dimensioni e progettualità, per cui ciascuna può trovare lo spazio più adatto ai propri propositi. Non è quindi necessario avere una laurea per promuovere un’azienda, bensì avere piani di sviluppo, a seconda delle disponibilità e aspirazioni.

In ciò sono fondamentali i processi di mentoring, vale a dire la collaborazione di imprenditrici di successo, di diverse generazioni e differenti settori che – a partire dalle loro esperienze – incoraggino le interessate a “osare” per dar corpo alle proprie ambizioni, senza che ciò appaia come imprudente o eccedente rispetto ai ruoli di genere codificati.

Idee vincenti nascono infatti da fratture con ciò che è dato. E molto spesso nascono da momenti di difficoltà esistenziale o familiare, se non da fallimenti, per cui l’uscita dalla crisi segna una “rinascita” personale. In tal caso, un’imprenditoria innovativa viene a concretizzare la chance per una “nuova vita”. Storie biografiche di donne ci raccontano questo: la capacità di dare una forma lavorativa a esperienze di vita.

Come ha ricordato Joanne K. Rowling – la famosa autrice di Harry Potter – in un discorso tenuto nel 2008 ai neolaureati di Harvard, il suo successo nacque da una forte crisi depressiva, dovuta a un divorzio per maltrattamenti e alla necessità di dipendere con la figlia da sussidi statali. L’idea del romanzo nacque così da una situazione di disperazione, dove esperienze ed emozioni vennero convogliate nel testo, al punto da scontrarsi con le sue stesse paure. Come fu ricordato dalla stessa scrittrice, “Ciò di cui avevo più paura alla vostra età non era la povertà, ma il fallimento. (…) Ma fallire ha voluto dire spogliarsi dell’inessenziale. Ero finalmente libera perché la mia più grande paura si era davvero avverata, ed ero ancora viva. La vita è difficile, è complicata, (…) è l’umiltà di sapere che sarete capaci di sopravvivere alle sue sfide. (…) Ho imparato a dare valore all’immaginazione in un senso più ampio. (…). È il potere che ci rende capaci di empatia con gli altri esseri umani (….). La vita è come un racconto: non è importante quanto sia lunga, ma quanto sia buona.”

L’imprenditoria femminile con le sue sfide e potenzialità può rappresentare un barlume, un piccolo contributo per una “vita buona”, prospera e sostenibile, condivisa con i più.

Tale approccio può essere senza dubbio condiviso e applicato in tutti i Paesi dell’Unione Europea, a partire dai principi fondanti della cittadinanza europea, come espressi nella Carta dei Diritti fondamentali, facendo interagire la libertà individuale e l’uguaglianza anto-discriminatoria con la solidarietà e la giustizia sociale.

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  • Marina Calloni

    Marina Calloni è professoressa ordinaria di Filosofia Politica e Sociale, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale - Università degli Studi di Milano-Bicocca. Ha da sempre cercato di far interagire attività di ricerca multi-disciplinare e inter-culturale con modalità d’insegnamento e di formazione interattive, secondo una prospettiva internazionale e un interesse per le realtà locali, occupandosi in particolar modo di teoria politica, difesa dei diritti umani, questioni di genere. Ha partecipato e partecipa a numerose ricerche nazionali e internazionali e reti cross-morder, collaborando con università, centri di ricerca, associazioni e istituzioni sovranazionali. È rappresentante del MUR presso l'"Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica" presso il Ministero per le Pari Opportunitа e la Famiglia e consulente per la “Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere” presso il Senato della Repubblica.

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