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Sex work e classificazione ATECO: la parola a Le Contemporanee

L’entrata in vigore della nuova classificazione ATECO 2025, aggiornata da Istat – di concerto con Agenzia delle Entrate e Camera di Commercio – ha destato, nei giorni appena trascorsi, un notevole clamore.

Al centro dell’attenzione collettiva, il codice 98.99.92, la cui descrizione, codificata a livello europeo, riporterebbe, tra le altre, anche le seguenti attività: “provision or arrangement of sexual services, organisation of prostitution events or operation of prostitution establishments'”.

Il dibattito ha finito quindi per suscitare, da una parte, lo sgomento di chi ha interpretato questa modifica come un tentativo di avvicinare una serie di attività, che potrebbero costituire reato, ad un inquadramento fiscale, generando dunque anche spinosi conflitti con le normative di riferimento. Dall’altra, invece, il plauso di quanti auspicano da tempo una regolarizzazione del sex work (che secondo le stime, nel nostro Paese, coinvolgerebbe più di 100mila persone, per un mercato di circa 3 milioni di clienti ed un fatturato che si aggirerebbe intorno ai 3,6 miliardi di euro l’anno).

Istat ha dunque provveduto ad operare un chiarimento importante: l’Istituto Nazionale di Statistica ha infatti precisato che la classificazione delle attività economiche, poichè definita a livello comunitario, può includere anche attività illegali, ai fine di garantire “la piena comparabilità dei dati tra Paesi dell’Ue, indipendentemente dal loro regime normativo.”

Tuttavia, la nuova classificazione ATECO 2025 verrà effettivamente applicata, nel nostro Paese, soltanto alle attività effettivamente a norma di legge: quali per esempio, nel caso specifico del codice 96.99.92, le “agenzie matrimoniali ed i servizi di speed dating.

“La prostituzione, non regolamentata in Italia, non potrà quindi essere registrata con un codice ATECO: ma ISTAT la stimerà comunque nei conti economici nazionali, utilizzando metodi indiretti, come richiesto dalle normative europee.” – Ha concluso, in una nota, l’Istituto Nazionale di Statistica.

Resta tuttavia da considerare la Legge Merlin (20 febbraio 1958, n.75): quest’ultima (seppur criminalizzando lo sfruttamento, il favoreggiamento ed il ricettaggio della prostituzione medesima) non proibisce, effettivamente, la prostituzione stessa. Ad oggi, dunque, nel nostro Paese, fornire servizi sessuali non costituisce reato, qualora a scegliere di farlo sia una persona adulta, nel pieno esercizio delle proprie facoltà.

Come uscire, dunque, da questa impasse? Quali sviluppi futuri potrebbero essere auspicabili?


Lo abbiamo chiesto alle esperte del nostro Network:

“In Italia, la prostituzione individuale è legale, ma un diffuso equivoco porta molti a credere che sia vietata dalla Legge Merlin (n. 75/1958)- Ha osservato l’insegnante e pedagogista Mila Spicola – “In realtà, questa legge non proibisce l’atto volontario di prostituirsi, che ad oggi è permesso e frutto di scelta individuale libera, ma colpisce lo sfruttamento, il favoreggiamento e l’organizzazione della prostituzione, come la gestione di case chiuse o il profitto derivante dall’attività altrui.
Chi esercita la prostituzione in autonomia, in particolare, può già dichiarare i propri guadagni nel modello 730, sotto la voce “altri redditi”, o aprendo una partita IVA, anche se manca un codice ATECO specifico per questa attività. Ed è questo, il vuoto che alcune proposte, discusse in ambito governativo, vorrebbero colmare con l’introduzione di nuovi codici ATECO.
Le proposte di ‘liberalizzazione’ trovano il favore di molti, perché sembrano promettere una regolamentazione del lavoro delle sex workers e una tassazione più chiara.
In realtà, la prostituzione è già considerata un’attività tassabile, e i redditi possono essere dichiarati, pur in assenza di un codice ATECO dedicato.
Tali proposte spesso alimentano confusione, lasciando intendere che la prostituzione in sé necessiti di legalizzazione, quando invece è già consentita come scelta individuale. Il rischio emerge quando si parla di estendere i codici ATECO a ‘organizzazioni che forniscono il servizio’, come ipotizzato in alcune discussioni normative. Tali strutture potrebbero celare forme di sfruttamento, violando i principi della Legge Merlin. Ogni tentativo di normare il settore dovrebbe quindi distinguere chiaramente tra la libertà individuale, già oggi garantita, e qualsiasi forma di gestione collettiva, che rischia di cadere nell’illegalità.

“Spiegava bene Linda Laura Sabadini che Istat, per compiere le proprie ricerche, deve definire e classificare fra l’altro le attività imprenditoriali, siano esse lecite o illecite, legali o illegali.”- Ha concordato la giornalista e conduttrice Flavia Fratello.

“Questa premessa è d’obbligo, per capire l’effettiva portata reale del provvedimento che inserisce il codice Ateco sulla prostituzione, e soprattutto sulle attività che ruotano intorno alla prostituzione. C’è noto infatti che prostituirsi non è reato: favorire la prostituzione, sfruttarla, permettere a terzi di ricavarne profitto, sì. Ecco dunque il codice Ateco che sembra “aprire”, “legalizzare”, attraverso l’imposizione fiscale, comportamenti che in realtà il nostro codice ancora sanziona, e per cambiare i quali sarà necessaria una legge apposita, qualora lo si voglia fare. Detto questo, non credo affatto che permettere ad una prostituta di pagare le tasse significherà maggiore sicurezza per la stessa, come si è sostenuto da più parti. Significa invece normalizzare un’attività che nella stragrande maggioranza dei casi nasconde -e nemmeno poi tanto- coercizione, sfruttamento, miseria. Se si vuole rendere il lavoro delle prostitute più sicuro credo si debbano, invece, intraprendere altre strade.”

“La recente attribuzione del codice ATECO ai “servizi di incontro ed eventi simili” si colloca in un quadro normativo chiaro che vieta esplicitamente lo sfruttamento della prostituzione, ma non il suo esercizio, sull’assunto che l’auto determinazione e la libertà individuale siano in grado di guidare le scelte individuali”- Conclude l’avvocata Andrea Catizone, Presidente della Fondazione Tina Lagostena Bassi.

“Su questa scorta, considerare la prostituzione come attività economica, assimilabile a un lavoro come un altro, significa ignorare il contesto in cui essa si realizza, se si fa oltretutto riferimento ai principi costituzionali di tutela della dignità umana art. 3 e 32 Cost. e del lavoro come fondamento della Repubblica art. 1 e 4 Costituzione. È urgente una riflessione normativa che, anziché normalizzare, si impegni a contrastare la mercificazione del corpo delle donne, considerando inoltre che la classificazione introdotta non regolarizza solo l’attività di chi si prostituisce, non vietata dal nostro ordinamento, ma anche quella di chi organizza i servizi sessuali, gli eventi e la gestione di locali di prostituzione, il cui confine con le attività illecite di sfruttamento della prostituzione è evidentemente difficile da delineare. Si fiscalizza, insomma, una attività illecita che, oltretutto, si consuma sul corpo delle donne.”

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