Negli ultimi dati diffusi dall’Istat sul mercato del lavoro italiano c’è qualcosa che rassicura e qualcosa che inquieta. Come spesso accade, dipende da dove si guarda. Da un lato, le cifre raccontano un Paese che, nonostante tutto, prova a tenersi in piedi: a ottobre, gli occupati sono aumentati di 75 mila unità rispetto al mese precedente, e di oltre 220 mila rispetto a un anno fa. Il tasso di disoccupazione è sceso al 6%, quello giovanile è andato sotto il 20% per la prima volta da molto tempo. Numeri che, in superficie, sembrano invitare all’ottimismo.
C’è chi li legge come un segno di vitalità: imprese che assumono, settori che ripartono, una curva dell’occupazione che sale con una certa costanza.
Eppure, non tutti la vedono così. La CGIL, commentando gli stessi numeri, invita a non farsi incantare dalla pura aritmetica. Perché dietro l’aumento degli occupati, sottolinea, c’è un mercato del lavoro che continua a muoversi in modo diseguale e sbilanciato. La crescita, infatti, appare trainata soprattutto dagli over 50, mentre giovani e donne continuano a essere quelli che restano fuori dalla porta o che rientrano solo da ingressi laterali, spesso precari, spesso mal retribuiti. Non è quindi un Paese più dinamico quello che emerge, ma un Paese che invecchia mentre lavora, e che fatica ancora ad aprire spazio alle nuove generazioni.
È una critica che mette in luce un nodo che non si può ignorare: l’Italia cresce, ma cresce male. Cresce senza rinnovarsi. E mentre i numeri brillano, le storie individuali continuano a raccontare un’altra realtà fatta di contratti brevi, opportunità limitate, salari insufficienti e scarsa mobilità.
A rendere il quadro più complesso si aggiunge il tema delle pensioni, dove la politica continua a muoversi con cautela. Il caso emblematico più recente è quello di Opzione Donna: la proposta di estendere lo strumento non ha trovato coperture economiche per entrare nella manovra di bilancio. Un dettaglio che tocca un punto nevralgico: le donne sono tra le più penalizzate nel mercato del lavoro e allo stesso tempo faticano ad avere percorsi pensionistici lineari e tutelati. Senza strumenti adeguati, restano intrappolate tra lavori discontinui, carichi familiari e un sistema previdenziale che non le accompagna.
La verità, forse, sta a questo punto nel mezzo: attualmente, l’Italia non è né un Paese in rovina né un Paese lanciato verso un nuovo miracolo economico. È un Paese in transizione, che mostra segnali di vitalità ma che porta sulle spalle pesi antichi: una demografia che non ruba mai la scena, un’occupazione femminile che arranca, generazioni giovani che faticano a entrare davvero nel mondo del lavoro, politiche attive ancora insufficienti.
E se c’è una conclusione che si può trarre dai dati, è che non basta che l’occupazione aumenti: serve che aumenti bene. Serve che i giovani trovino un posto nel futuro, che le donne possano lavorare e uscire dal lavoro con dignità, che l’età non sia l’unico fattore determinante nei numeri dell’occupazione. Serve, in altre parole, che la crescita sia accompagnata da una visione.
Il lavoro in Italia, oggi, è come una storia scritta a due mani: una suggerisce che stiamo andando avanti, l’altra ricorda che non basta camminare per dire di essere arrivati. E mentre ottimisti e pessimisti continuano il loro duello retorico, la vera sfida è trasformare i buoni segnali in un cambiamento che riguarda tutti, non solo una parte del Paese.

