Istantanea

Da Giulia Tramontano a Michelle Causo. Il femminicidio come azione repressiva sistemica

Questo articolo doveva originariamente essere due cose: un resoconto del singolo femminicidio di Giulia Tramontano, la donna incinta uccisa dall’ex partner Alessandro Impagnatiello a Senago (MI) il 27 maggio scorso, e un’analisi delle varie problematiche riscontrabili nella dinamica omicidiaria, così come nella narrazione mediatica col solito sciacallaggio riguardo le presunte, quanto irragionevoli, corresponsabilità dell’amante dell’assassino – se non addirittura della stessa vittima.

A quello di Tramontano sono però, e purtroppo, seguiti altri cinque casi che non hanno potuto non farci riflettere sulla funzionalità della linea punitiva adottata dal governo Meloni per contrastare il fenomeno sistemico del femminicidio. Punitiva, non preventiva come servirebbe. Ma parleremo più avanti delle intenzioni accennate dal ministro degli Interni Piantedosi.

Non intendiamo stilare qui un tragico necrologio delle donne in questione, ma via via approfondendo i casi è risultato impossibile per noi non constatare quanto sia importante sottolinearne alcuni particolari ricorrenti. Oltre al fatto che i numeri, ricordiamolo, sono impersonali e ci sembra doveroso ricordare chi è stata uccisa da un uomo perché donna.

Lo stesso 1° giugno 2023, giorno del ritrovamento del corpo di Tramontano, è stata uccisa a San Basilio di Roma Pierpaola Romano, 58 anni, un’agente di Polizia. La donna era malata oncologica e aveva deciso di lasciare il collega con cui aveva una relazione, Massimiliano Carpineti. Il soggetto non ha accettato la separazione, e nonostante la delicata situazione vissuta dalla donna, ha deciso di ucciderla per poi togliersi la vita a sua volta.

Una settimana dopo un altro femminicidio, a Sant’Antimo. L’8 giugno è stato il turno di Maria Brigida Pesacane, 24 anni; uccisa assieme al cognato Luigi Cammisa dal suocero perché, si è scoperto, aveva intrecciato una relazione con il cognato. Entrambi sono stati freddati con colpi d’arma da fuoco e non hanno avuto scampo.

Il 9 giugno viene trovata ammazzata anche Floriana Floris, in provincia di Asti. 49 anni, agente di commercio, Floris era stata reclusa dal compagno in casa e non si avevano notizie di lei da giorni. Le forze dell’ordine, allertate dalla figlia, hanno trovato la donna attinta da 30 coltellate. Il femminicida ha tentato maldestramente di suicidarsi e dopo il recupero in ospedale ha confessato il delitto agli inquirenti.

Il 19 gugno a Rimini è stata ritrovata uccisa poi Svetlana Ghenciu, 47 anni. Il compagno aveva prima sparato a lei per poi rivolgere l’arma contro se stesso uccidendosi.

Infine il recentissimo caso di Maria Michelle Causo, di soli 17 anni, uccisa il 28 giugno a Primavalle di Roma da un coetaneo che ha prima caricato il corpo in un carrello della spesa, nascosto in sacchi della spazzatura, per poi abbandonarlo tra i rifiuti. Secondo le ricostruzioni però in questo caso non si tratterebbe, nello specifico, di un episodio di femminicidio – ovvero di un delitto commesso da un uomo che considera la donna una sua proprietà da controllare ed eliminare in caso ella si ribelli al suo controllo – bensì un delitto caratterizzato da futili motivi legati al denaro; un debito irrisorio per di più: appena quaranta euro che l’assassino avrebbe mancato di restituire a Causo.

Cosa ci dicono questi femminicidi? Compreso quello di Tramontano e il delitto di Causo? Non si tratta solo di storie di libertà negata, di donne soggette a sfibranti violenze domestiche ed economiche. Il problema qui non risiede nemmeno nei quartieri cosiddetti ‘difficili’ verso cui si volge sempre l’obiettivo ogni qualvolta un crimine avviene fuori dall’ambiente borghese e luccicante dei grandi centri urbani, quasi a voler attribuire al degrado una lombrosiana peculiarità criminale.

Si tratta di uomini incapaci di fare i conti con le loro frustrazioni di genere, e che per confermare la loro presunta virilità, come richiesto dal ruolo di genere socialmente imposto, invece che di guardarsi dentro e accettare che le donne sono individue con gli stessi dititti, decidono di ergersi a giudici della vita di quelle considerate appunto spunti, oggetti senza diritto di potersi esprimersi. O di andarsene per sempre da loro. Tale comportamento irresponsabile li porta a fuggire anche l’inevitabile resa dei conti delle azioni compiute, ed è per questo che un gran numero di femminicida si toglie la vita subito dopo l’atto criminoso, oppure cerca di occultare i cadaveri delle vittime per allontanarsene.

Le donne uccise perché donne vengono poi quasi sempre colpevolizzate per la loro risolutezza nell’allontanarsi, così per la decisione, più o meno volontaria, di rivedere l’abusante. Nel più bieco victim blaming infatti, la stessa società che accudisce potenziali abuser a suon di romanticizzazione delle relazioni tossiche, virilità stereotipata ed esaltazione della violenza contro le donne, biasima queste ultime con paternalismo quando oramai è troppo tardi, a femminicidio compiuto. Il che è davvero ignobile, oltre che inutile.

Gravissime in questo senso, e potremmo dire anche emblematiche di una certa mentalità purtroppo ancora presente nel nostro paese, le parole della pm Letizia Mannella durante la conferenza stampa del 1° giugno. Parlando di Tramontano ha infatti dichiarato: “Quello che è veramente importante in questa vicenda è che deve insegnare a noi donne di non andare mai all’incontro della spiegazione. È un momento da non vivere mai, perché estremamente pericoloso”. Peccato che la donna non stesse affatto raggiungendo l’ex quando venne uccisa; e peccato anche che le donne non sempre vanno incontro ai propri assassini ‘per mantenere un rapporto civile con loro’. Il motivo può risiedere nella paura di azioni ostili a cui si cerca di apporre rimedio tramite un dialogo, nella violenza economica, nel contatto con la prole.

Ci sono milioni di motivi per cui una donna entra in contatto col suo abuser. E senza un’educazione in grado di insegnare a chiunque – donne, uomini e altre soggettività comprese – una chiara valutazione del rischio come possiamo aspettarci di abbassare le percentuali di tale fenomeno sistemico?
Perché mettere in guardia le donne invece che rivolgersi agli uomini? Perché Piantedosi, Roccella e Nordio hanno annunciato di voler apporre un intervento normativo al prossimo Consiglio dei Ministri seguendo una linea chiaramente punitiva anziché preventiva?

Non sarebbe il caso di spingere gli uomini a educarsi per comprendere che essi non hanno affatto diritto di invadere lo spazio femminile solo perché la donna con cui stanno non è un oggetto da maneggiare come vogliono? Non sarebbe meglio finanziare un’educazione alla parità di genere e al rispetto del consenso fin dalla tenera età per contrastare simili logiche patriarcali? Quante altre donne dovranno morire per smetterla con le logiche punitive e pensare a salvare donne e uomini dalla violenza di genere? Restiamo in attesa di novità dal governo.

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CONTRIBUTOR

  • Transfemminista, attivista lgbtqiapk+ e militante pro-choice, Lou è una persona transgender non binaria. Dopo la laurea in Beni Culturali ha iniziato a formarsi in gender studies, cultura queer, feminism and social justice. Ha conseguito un corso in Linguaggio e cultura dei CAV. Ha abbracciato la campagna "Libera di abortire" e collabora con diversi collettivi transfemministi. Fa attualmente parte di Gaynet Roma Giovani. È una survivor di violenza. Attualmente è content creator, moderatrice e contributor. Suoi obiettivi sono: continuare a svolgere formazione nelle scuole e diventare giornalista. 

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