Istantanea

Massimo Fini e la paura delle donne

“Se per un lavoro infelice da segretarietta in qualche azienda di scannatori le donne devono rinunciare a fare figli, il gioco non vale la candela”. Questo è il passaggio saliente di un lungo articolo di Massimo Fini sul problema della denatalità. Fa l’effetto di un pugno in faccia.

Va detto che Fini ha dalla sua una grandissima capacità di scrittura: quando scrive non passa inosservato. Va anche detto che è un personaggio spesso controcorrente, capace di vedere le cose in maniera non banale e non scontata. E aggiungo, a livello personale, che io apprezzo spesso i suoi articoli. È una di quelle persone da cui c’è sempre da imparare, anche quando non si condivide.

Non è quindi una sorpresa se, sull’argomento della natalità, scrive una frase particolarmente urticante. Io però non solo non la condivido, ma ritengo che quella frase e buona parte dell’articolo (pubblicato il 17 maggio sul Fatto Quotidiano) siano il frutto di errori e fraintendimenti, purtroppo abbastanza diffusi, anche se non sempre in modo così esplicito, e con una simile capacità di scrittura.

1) In primo luogo Fini rileva che in tutto l’Occidente il tasso di natalità è da decenni, da circa 50 anni, al di sotto del tasso di riproduzione “ideale” del 2%, quello che servirebbe al “pareggio demografico”, cioè a lasciare la popolazione più o meno al livello in cui si trova. Spesso si dice che in Italia non si fanno figli per mancanza di soldi, o di lavoro, o di case. Qui Fini sgancia la prima bombetta: prende la parte per il tutto e attacca l’idea che non si facciano figli per “povertà”. Ignora (o finge di ignorare) che la povertà è sempre un concetto relativo, e ci informa che in tanti paesi meno ricchi di noi si fanno 4 o anche 5 figli per donna. Quindi non è vero, dice Fini, che da noi non si facciano figli perché le famiglie non hanno i soldi. Discutibile in parte, ma non così assurdo.

2) Fini stesso ammette però che il problema è più complesso. E spiega che in Italia non si fanno figli se non si è certi di poter assicurare loro “un futuro”, cioè condizioni di benessere ed educazione tali da permettere al figlio di avere un inserimento adeguato nella società. Qui sembra avvicinarsi a quello che è il comune sentimento: se non ci sono i nidi, buone scuole e poi corsi, sport, università, viaggi, disponibilità, che vita vogliamo dare a questi ipotetici figli? Si potrebbe obiettare che grandi personaggi e persone perfettamente felici di esistere sono nate in condizioni svantaggiate. Quindi questa ragione, che è certamente fondata, non basta a spiegare un così diffuso gelo demografico. E Fini lo dice: tutto questo non basta.

3) Fini si avventura ora in una spiegazione più profonda, culturale. È chiaro che le spiegazioni di stampo economicistico sono insufficienti. Qui arriva la seconda bomba. Sostiene Fini che dobbiamo guardare al rapporto complesso tra uomini e donne, un rapporto che nella nostra società “è sempre più difficile”. Appena posto il problema, però, salta anche alle conclusioni: “Il maschio – afferma Fini – ha sempre avuto una dannata (…) paura della donna intuendone la superiorità antropologica”. Ovvio che qualunque donna (e buona parte degli uomini) liquiderebbe questa affermazione senza un secondo di esitazione. Però, visto che si parla di atteggiamenti psicologici inconsapevoli è difficile non prenderli neanche in considerazione.

È vero che tutti gli esseri umani possono essere considerati degli scrigni di mistero per gli altri esseri umani. Quindi anche le donne per gli uomini, e gli uomini per le donne. Va bene, siamo pari? 

No, non siamo pari, perché sappiamo che nella maggior parte delle società, nella maggior parte della storia conosciuta, sono gli uomini a gestire il potere, ed è il loro “sguardo” che ha fondato i significati e assegnato i ruoli, quindi anche quello delle donne. Come dimostra il discorso di Fini, in questo tipo di cultura (o mentalità), il soggetto è il maschio, quindi tutto viene visto e giudicato in rapporto a questa soggettività. Il discorso potrebbe in teoria essere rovesciato, ma di fatto questo non avviene, e fino a oggi non è mai avvenuto. Quindi, purtroppo, Fini segna dei punti a favore quando esprime il punto di vista (patologico) del maschio. Storicamente è sempre stato così…anche se in Europa questo l’abbiamo cambiato un bel po’ nell’ultimo secolo. O no?

4) Infatti il discorso di Fini continua su questa linea, in base al punto di vista del maschio: “impaurito” dalle donne e ora ancora più impaurito dalla loro “aggressività”. Per cui il maschio impaurito ora sceglierebbe l’omosessualità o comunque la fuga dalle femmine e dalla riproduzione. Spiegazione non del tutto impossibile, in teoria. Tranne che poi è Fini stesso a dire che l’omosessualità è sempre esistita (anche quella femminile, che lui tipicamente trascura). E si sa che gli uomini, anche etero, hanno sempre preferito “stare tra di loro” come sottolinea Fini e come sanno tutti, uomini e donne. Quindi, dov’è la novità?

5) Ma Fini va più in profondità: lui stesso dichiara che tutto ciò non spiega abbastanza. Si aggrappa perciò alla famiglia, che la razionalità moderna avrebbe “scardinato”. E questo sembra un mezzo inciampo, perché se si guarda la storia della famiglia nei secoli si vede che ha vissuto fasi molto alterne, che ha avuto aspetti molto vari a seconda dei diversi strati sociali, e che la famiglia ideale del Novecento è un’invenzione recente. Se poi ci si vuole riferire al potere del pater familias del diritto romano, diritto peraltro tuttaltro che universale, credo che Fini si scontrerebbe con un muro di cemento per fortuna già innalzato nella nostra cultura da parecchi decenni contro questa che era una vera e propria forma di schiavismo.

6) Alla fine Fini trova la sua arma “fine di mondo”: “la funzione antropologica primaria della donna è quella di fare figli”.  Questo sembra un assioma più che un concetto logico, e qui entra il suo corollario per cui se una donna ha dei talenti e li vuole perseguire va benissimo, ma per un lavoro da segretarietta…il gioco non vale la candela”. Qui Fini distrugge il principio della dignità del lavoro (di qualunque lavoro). Quindi lo stesso discorso dovrebbe valere anche per gli uomini. Perché dovrebbero dannarsi l’anima per qualche lavoro da muratorino, o da operaietto, o camerieruccio, o impiegatuccio? Attenzione, perché questa logica porta molto lontano.

7) Spazzata via la dignità del lavoro, e ignorando anche il fatto che, statisticamente, in tutto l’Occidente, i paesi nei quali la natalità è più alta sono quelli nei quali c’è il più alto numero di donne occupate, Fini parte per un altro assalto: “l’antropologia, cioè la Natura, non sbaglia un conto”. Ecco perché arrivano tanti migranti dall’Africa, visto che noi non facciamo più figli.  A parte la conclusione, che ha una sua razionalità (cioè perché mai un’Europa destinata alla desertificazione non dovrebbe attirare popoli che stanno peggio? Non è la Natura, ma la logica); ma l’appello alla Natura e all’antropologia, è un capolavoro di mistificazione.

In primo luogo l’antropologia non è altro che la scienza sociale che studia l’Uomo nel suo ambiente naturale, cioè la Cultura. Quindi l’antropoligia non è sinonimo di natura.

Ma la Natura, con la enne maiuscola come la scrive Fini, è uno di quei miti, di quei topos, cui gli uomini amano a volte fare ricorso, soprattutto quando si parla di donne. Donna (singolare e maiuscola) e Natura infatti rappresentano un binomio ben noto agli studiosi delle società umane. Cosa siano e cosa pensino le singole donne (e anche i singoli uomini), in questo topos non interessa. Secondo questa figura mitica, la Donna deve accettare la Natura, fingendo che questa Natura non sia totalmente non-naturale, bensì costruita dagli uomini, anzi dall’Uomo. Naturalmente la Natura non viene invocata quando invece si parla di tutto ciò che l’homo sapiens fa e ha sempre fatto per sopravvivere a malattie, sofferenze, catastrofi, freddo, caldo, fame. Se gli esseri umani non avessero imparato molto presto a “fregare” la natura con la tecnologia, la religione, l’arte, l’architettura, la cottura del cibo, fino agli antibiotici e all’intelligenza artificiale….  Oggi la nostra specie non esisterebbe.

Caro Fini, lei sa meglio di me che negli ultimi 2000 anni in Europa si è affermata una visione del mondo rivoluzionaria, che ha reso le donne degli interlocutori alla pari con gli uomini. La figura storica di Gesù Cristo, per la prima volta, ha scardinato certi tabù. Si può nascere da una ragazza madre, avere un padre adottivo e riconoscere uguale dignità a tutte le donne e a tutti gli uomini. Questa idea ha faticato a diffondersi, è stata fraintesa e ha fatto nascere una religione che ha quasi sempre tradito le proprie origini e ha fatto tanti disastri, sulla scia di altre religioni monoteiste e di stampo patriarcale. Ma questa idea ha lavorato in profondità e negli ultimi secoli si è affermata sempre di più. 

Forse allora la realtà è proprio l’opposto rispetto all’interpretazione di Fini: forse le donne in Italia fanno meno figli che nel resto del mondo occidentale, proprio per sottrarsi a questa mistica della maternità. Mistica che, appena compare il bambino, inchioda le donne al loro presunto ruolo di madri. Sembra che proprio nel paese della Mamma, l’Italia, le donne vogliano scrollarsi di dosso questo peso che rischia di soffocarle. Altrove invece questo ruolo è depotenziato. E infatti in paesi come la Francia per esempio i figli nascono per lo più fuori dal matrimonio e si affidano serenamente a baby sitter e nidi, che nulla tolgono alla madre e al padre. In Italia le donne invece hanno paura di essere investite da una responsabilità ingestibile, hanno paura di perdere il lavoro, hanno paura di trasformarsi da persone in “madri”, ed ecco perché temono e rifiutano spesso di avere dei figli.

Forse nascerebbero più bambini se le donne non sentissero su di sé tutta questa responsabilità, se potessero continuare a essere sé stesse, e come tutti, anche quando nascono i loro figli e le loro figlie.

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CONTRIBUTOR

  • Angela Padrone

    Angela Padrone, giornalista e scrittrice. È laureata in Filosofia e si è formata seguendo studi di Storia e soprattutto di Antropologia Culturale. Per una vita ha lavorato al Messaggero. Ha scritto libri sui giovani, il lavoro e le donne: "Precari e Contenti", "La sfida degli Outsider", "Imprese da Favola", tutti con Marsilio. Ama nuotare e insegna  i Vini del Mondo per il Wine and Spirit Education Trust.

COMMENTI

3 Responses

  1. Non concordo quasi su nulla con te e non è questa la sede per “scardinare” alcune affermazioni del tutto peregrine ma, come Fini, scrivi terribilmente bene. Saluti ☺️

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