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Le “dimissioni” di Boris Johnson: “Non, je ne regrette rien”

Sono giorni di fuoco per il Parlamento inglese. Dopo la raffica di dimissioni record all’interno del suo esecutivo, anche Boris Johnson si è dovuto arrendere.

L’annuncio arriva dopo tre rocamboleschi anni di governo (“tumultuous” come li ha definiti il The Guardian nel suo editoriale dedicato all’evento). Il suo discorso di fronte a Downing Street del 7 luglio, conferma che l’ultima fase del suo governo sarà altrettanto movimentata.

Nel 2019, i Conservatori si sono rivolti a Johnson per la sua popolarità, soprattutto se paragonata a quella dell’ex leader del partito dell’opposizione, Jeremy Corbyn.

Il suo modus operandi come giornalista e come politico era già noto; dalle sue uscite di stampo razzista alla sua capacità di montare uno storytelling “fantasioso” che lo ha caratterizzato sia come giornalista sia come campaigner per la Brexit. A discapito di tutto ciò, Johnson è stato scelto come leader dei Tories, un partito che già da tempo, ha dimostrato di essere disposto a tutto, anche a scelte azzardate pur di mantenere solido e compatto il proprio consenso popolare (e.g. letteralmente la Brexit).

Johnson ha preso in mano le redini di un paese che stava attraversando una tempesta, economica, politica e sociale.

I partiti storici divisi, un paese esponenzialmente più povero e un groviglio di questioni sociali e culturali irrisolte, coronati dal bisogno di concludere le trattative sulla Brexit con la Commissione europea.

La vittoria dei Conservatori ha placato momentaneamente chi all’interno del partito aveva delle riserve e i Labour si sono scavati la fossa da soli, eleggendo un leader senza un messaggio politico vero e proprio.

Per tutto il resto dei problemi, Johnson ha oscillato fra il menefreghismo e il radicalismo conservatore.

Tempo due mesi dal suo insediamento, scoppia una pandemia globale. Dopo aver rischiato di morire lui stesso, l’atto più rilevante che ha fatto durante la pandemia è stato presiedere ad una serie di festini e “gathering” illegali durante il lock down presso Downing Street.

Le trattative sulla Brexit sono state portate avanti da Johnson, come un ex fidanzato infastidito dalle richieste della sua ex ragazza di potersi parlare per chiarire le cose meglio, ovvero, ghostando la Commissione e arrivando alla deadline senza un piano concordato, che lui, coerentemente alla sua retorica che trasforma letame in oro, ha definito “hard Brexit”.

Ad oggi, l’Inghilterra è entrata in una crisi economica senza precedenti; l’inflazione è alle stelle, cosa che ha portato alla “cost of living crisis”, un aumento esponenziale tra le altre cose, di bollette, alimenti e benzina – si prospetta l’arrivo di una recessione.

Johnson ha però ottenuto un altro grande traguardo, ovvero quello di aver limitato i diritti democratici del paese, facendo passare ed approvare un provvedimento legge che limita la possibilità di protesta e garantisce un raggio d’azione maggiore alle forze dell’ordine per limitare e arrestare manifestanti.

Il provvedimento è legato alle svariate proteste che ci sono state in tutta l’Inghilterra, negli ultimi 4 anni. Gli attivisti di Extinction Rebellion che hanno occupato pacificamente zone strategiche di Londra, con l’intenzione di riproporre spazi urbani come villaggi sostenibili e inclusivi; le proteste del Black Lives Matter, successive a George Floyd, e l’emblematico episodio del lancio della statua di Edward Colston (il “benefattore” schiavista del ’600) nel fiume di Bristol. Non solo i manifestanti sono stati scagionati, ma la statua, rimossa dal fiume, si trova ad oggi in un museo di Bristol, dove è conservata insieme ad altri artefatti provenienti dalla protesta, allo scopo di storicizzare l’avvenimento e invitare le persone ad una riflessione rispetto a quanto avvenuto e quale dovrebbe essere ora il futuro della statua. E ancora, la veglia funebre per Sarah Everard, ragazza violentata e uccisa da un poliziotto, conclusasi a causa dell’irruzione e dell’arresto delle presenti da parte della polizia, sulla base delle regole allora in piedi per il lockdown.

In tema di diritti umani, ricordiamo le problematiche politiche migratorie dei Tories, l’ultima, la “spedizione” di richiedenti asilo in Rwanda. Menzione speciale al fatto che per il terzo anno di fila, l’Inghilterra scende nel ranking ILGA per i diritti LGBTQ+, ad oggi al 14esimo posto.

è difficile identificare un motivo specifico che spieghi “perché adesso”; la maggior parte delle cose fatte (o non fatte) da Johnson, avevano il supporto o almeno il silenzio del partito. Molto banalmente, dopo gli innumerevoli scandali, e una popolazione in ginocchio, il golden boy dei Tories ha esaurito la sua ultima risorsa: il favore popolare. é a questo punto (e solo a questo punto) che il suo partito lo ha rinnegato.

Il discorso di Johnson riflette l’arroganza e il sentimento di superiorità che hanno caratterizzato la sua carriera politica. Una sequela di doppi sensi e frecciatine, che lasciano intendere che non se ne andrà via così facilmente.

Dopo aver sottolineato la vittoria record del 2019, che praticamente si attribuisce e, proprio perché hanno una maggioranza parlamentare forte (sottointeso, grazie a lui), racconta di aver provato a dissuadere i suoi colleghi rispetto ad un cambio di governo, ma di aver fallito.

Su questo fronte, rispetto alla decisione presa, definisce il suo stesso partito come un “herd” un branco che si muove quindi senza cervello o autonomia di pensiero, che, lo sostituirà seguendo quello che lui definisce un “sistema brillante e Darwiniano.”

– A voi lettori e lettrici, lascio la libertà di stabilire se un Primo Ministro che pronuncia le parole “sistema Darwiniano,” ovvero una lotta alla sopravvivenza del più forte, per descrivere le sue dimissioni, dimostra una sincera volontà di lasciare il suo posto. –

Per concludere in eleganza, nei ringraziamenti, parla dei “protforce detectives” ovvero i protection force detectives che lo accompagnano, come l’unico gruppo “who never leaks”, ovvero che non rilascia indiscrezioni, alludendo al fatto che gli scandali di cui è stato accusato sono frutto di collaboratori e colleghi “infedeli”.

Insieme ad una lista di successi discutibili, Johnson segnala di aver già instituito un esecutivo provvisorio, che verrà sciolto nel momento in cui i Conservatori sceglieranno un nuovo leader; non ha segnalato una data per le sue dimissioni – in realtà, non ha mai pronunciato la parola dimissioni.

Non c’è rassegnazione né rimpianto nelle parole di Johnson, solo una storia dove lui è il protagonista e l’eroe, messo alle strette da un partito di pecore e traditori che lo vuole cacciare via, mettendo a rischio l’equilibrio politico del paese.

C’è da dire un’ultima cosa; per quanto possa essere rappresentativo di una frangia estrema, Johnson è un Tory. Lo è nel sangue, nel suo pedigree (Eton e poi Oxford), lo è per la sua ideologia politica, che esprime in modi eccessivi, ma che è l’essenza dei Conservatori. I Tories hanno scelto coscientemente la via della Brexit e dell’estremismo per mantenersi a galla, in un paese le cui condizioni rappresentano ogni giorno una possibile crisi di legittimità per un partito che governa ininterrotto da più di una decade; non se ne separeranno e, temo che potrebbero non riuscire a separarsi neanche da Johnson stesso.

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  • Martina Rocchi

    Laureata in politica e comunicazione. Appassionata di quest’ultima, ha maturato questo interesse nella speranza di riuscire a farsi capire da qualcuno. La sua lingua nativa sono i meme, ma riesce comunque a esprimersi in italiano e in inglese

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