Pamela Genini aveva 29 anni. È morta nel suo appartamento a Gorla, uccisa da Gianluca Soncin, 52 anni, l’uomo da cui stava cercando di prendere le distanze. Un femminicidio annunciato, dicono gli inquirenti. Eppure, come troppe volte accade, nessuno è riuscito a fermarlo.
Secondo la ricostruzione, Soncin avrebbe agito incurante della polizia che stava per bussare alla porta. Ha ucciso Pamela per riaffermare il suo controllo, per ribadire la sua ossessione. Pamela viveva da settimane nella paura. Aveva raccontato a chi le stava vicino di sentirsi seguita, spiata: aveva scoperto che Soncin era riuscito a procurarsi un duplicato delle chiavi di casa, nonostante la separazione. In più di un’occasione aveva chiesto aiuto, ma senza una denuncia formale, la macchina della protezione non si era mossa.
Era isolata: lui controllava i suoi spostamenti, le amicizie, i contatti. Una dinamica che chi si occupa di violenza di genere conosce fin troppo bene, laddove il controllo totale diviene il preludio alla violenza fisica.
Ogni anno, centinaia di donne segnalano minacce, pedinamenti, molestie, ma solo una parte di loro ottiene misure cautelari. Le procedure sono lente, le valutazioni del rischio spesso minimizzate. E quando la paura non è ancora “denuncia”, le istituzioni restano in attesa.
Pamela è morta in quella zona grigia dove la burocrazia si ferma e la violenza agisce.
Secondo gli investigatori, Soncin sapeva che la polizia stava arrivando. Eppure, ha scelto di uccidere. Un gesto estremo, lucido nella sua crudeltà, dettato dalla volontà di mantenere l’ultima parola, di riaffermare l’ultimo dominio.
Dopo ogni femminicidio arrivano le condanne, le dichiarazioni, i minuti di silenzio. Poi tutto tace, fino alla prossima vittima.
Ma l’assassinio di Pamela Genini pone ancora una volta la domanda che le istituzioni sembrano evitare: cosa serve davvero, per salvare una vita?
Servono protocolli immediati, strumenti di protezione rapidi, formazione per innescare un cambio culturale. Servono risorse vere, non solo campagne volatili di sensibilizzazione.
Pamela, come troppe prima di lei, aveva intuito il pericolo. Ma la paura, da sola, non è stata sufficiente a salvarle la vita. E se le istituzioni non riescono a trasformare quella paura in protezione, allora, il fallimento non rimane confinato ad una singola vicenda. Ma si inscrive, viceversa, nella storia collettiva; la storia – colpevole- di tutti noi.