Storia di un impiegato (al 41 bis)

“perché gli uomini non perdonano mai!”  
G. Colombo, Il perdono responsabile

Da più di cento giorni Alfredo Cospito, componente della Fai – Fri (Federazione anarchica informale – Fronte rivoluzionario internazionale), accusato e condannato in quanto ideatore e autore di diversi attentati, conduce dal carcere presso cui è detenuto un inarrestabile sciopero della fame. Dal silenzio assordante in cui si trovavano i circa 750 detenuti quotidianamente torturati e dimenticati in regime carcerario di 41-bis – da una sostanziale condanna a morte, oggi loro risorgono insieme al loro martire Cospito. Oggi, finalmente, si torna a parlare seriamente di 41-bis. 

Il professore Andrea Pugiotto definisce quelli come Cospito “ergastolani senza scampo”, che vivono sulla loro pelle un fenomeno di triplo schiacciamento perché “espropriati della propria vita in quanto ergastolani; privati di ogni residua speranza in quanto ostativi; stralciati dalle normali regole del trattamento penitenziario in quanto sottoposti al regime del c.d. carcere duro”. 

Il carcere duro, infatti, prevede una legittima sospensione delle normali regole di trattamento dei detenuti, condannando il reo a una pena senza fine e senza speranza in contrasto con qualsiasi finalità rieducativa della condanna prescritta dall’art.27 della Costituzione. Lo racconta bene Carmelo Musumeci, che di 25 anni in carcere, 5 li ha trascorsi in regime di carcere duro: “è un fallimento che cancella anche la possibilità di una residuale emenda morale del reo […] l’ergastolano ostativo non pensa alla sofferenza che ha arrecato agli altri perché diventa egoista. E pensa piuttosto alla sofferenza che ora gli altri recano a lui. Quando ricevi del male tutti i giorni ti dimentichi di averne fatto a tua volta”. 

L’articolo 41-bis o.p. è una disposizione che non conosce né leggi – o perlomeno, non quelle della dignità umana – né confini: come riportato da un recente articolo de Il Post, negli anni l’elenco di reati per cui si può essere sottoposti al 41-bis, è stato decisamente ampliato fino a comprendere terrorismo, mafia, prostituzione minorile, pedopornografia, tratta di persone, acquisto o vendita di schiavi, violenza sessuale di gruppo, sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione, associazione a delinquere per contrabbando di tabacchi, associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. 

Ad oggi risultano in regime di 41-bis anche 13 donne, fra cui spicca il nome di Nadia Desdemona Lioce, esponente delle Nuove Brigate Rosse condannata per gli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi. Insieme a lei, vennero destinate al carcere duro anche le brigatiste Laura Proietti e Diana Blefari. Nadia Desdemona Lioce, secondo i suoi avvocati, si troverebbe da così tanto tempo sotto tortura in regime di 41-bis da aver perso la capacità di parlare per diversi minuti. I detenuti al 41-bis, infatti, si trovano in cella singola, senza eccezione alcuna. Sono due le ore al giorno di socialità e una “l’ora d’aria”. Per il resto, si è confinati nella propria cella, un luogo ristretto tendenzialmente incapace di filtrare la luce in modo adeguato condannando il reo, tra le altre cose, a perdere anche la vista. 

Tra il 2014 e il 2015 il responsabile scientifico del progetto di ricerca The Right to Hope, Life imprisonment in the European Context, il professore Davide Galliani – insieme ad Andrea Pugiotto, Sergio d’Elia, Elisabetta Zamparutti e Nadia Bizzotto – ha cercato di raccontare le “condizioni materiali esistenziali” degli ergastolani – condizioni che gli stessi detenuti non riescono a comprendere, data la gravosa mancanza di informazioni per loro disponibili: di 246 schede questionario recanti la domanda “ergastolo o ergastolo ostativo” alcune risposte riportavano un secco “non lo so”

In un tale panorama, come fa ancora a stupire la prontezza di Alfredo Cospito a percepire organo dopo organo collassare con un digiuno che ha superato i cento giorni? Ciò che le Istituzioni sembrano non voler cogliere è che un detenuto al 41-bis è sempre pronto ad abbracciare la morte, in quanto compagna più leggera, accogliente e soave rispetto alla vita e al risvegliarsi, un altro giorno dei tanti e rivivere tutto da capo. È un ballo mascherato di ipocrisia e vendetta quello intrapreso tra il 41-bis e la società civile, dove tutti gli idealismi saltano in aria e tutte le nostre certezze vengono rimesse in discussione.

Quello che sottilmente si sostiene oggi è che la pena smette di essere tale se eseguita in condizioni umane e non degradanti, una posizione giuridicamente insussistente oltre che impossibile. Ed è proprio questo equivoco che si trova al cuore di ogni discussione sul carcere: cos’è una pena? Esistono pene che sono “meno pene” di altre? Può l’adeguatezza di una pena essere decisa dalle nostre pulsioni? O è giusto che ci venga sottratto ogni possibilità di giudizio? 

L’ex magistrato Gherardo Colombo nel suo libro “Il perdono responsabile” restituisce perfettamente la ratio con cui tutti, facendo qualche piccolo sforzo, dovremmo approcciarci al grande mondo del carcere duro: “ […] non è vero che alle osservazioni svolte sul carcere consegua che chi è pericoloso per gli altri possa circolare liberamente e mettere in atto il suo comportamento trasgressivo. Chi è pericoloso deve stare da un’altra parte, ma quest’altra parte non può essere il carcere nella forma nella quale generalmente lo si intende oggi”. 

La privazione di ogni diritto e briciolo di umanità non è, dunque, una valida opzione. Ciò che servirebbe, soprattutto oggi, è uno Stato in grado di vedere oltre, Istituzioni che non rispondano ai desideri più viscerali degli uomini, ma che sappiano elaborare programmi a lungo termine per espellere la cultura criminosa e dissolvere le capacità delinquenziali anche degli appartenenti a organizzazioni criminose

Purtroppo, però, gli uomini – anche e soprattutto quelli che incarnano lo Stato – non perdonano mai. E dunque, nei confronti dei detenuti sottoposti a regime di 41-bis siamo tutti colpevoli. Il nostro capo d’accusa è averli dimenticati lì, nel buio e nel silenzio di celle fredde, isolate e di dimensioni inumane. Così, ogni giorno li torturiamo, non parlando di loro. Così torneremo a fare se (o quando) Alfredo Cospito morirà. 

Spingiamo con la rabbia e l’indifferenza lo Stato a non essere migliore di chi commette crimini, vogliamo che, invece, si riconosca suo pari. È la legge del taglione, occhio per occhio, dente per dente. Ed è qui che si cela l’inganno: le nostre pulsioni, la nostra rabbia non possono essere quelle dello Stato – il controllore, insomma, non può agire come il controllato. Quando questo succede, non esiste più limite, giustizia e legge: esiste solo un perenne stato di supervisione, un braccio di ferro tra secondini e detenuti, anche fuori le mura carcerarie. Siamo noi stessi, apparentemente liberi, i principali detenuti di un sistema punitivo che non lascia scampo o speranza a nessuno. Noi, che ci credevano assolti, siamo per sempre coinvolti. 

Foto di Jeong Yejune su Unsplash

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  • Vittoria Loffi

    Vittoria Loffi è studentessa universitaria e attivista femminista. È autrice del podcast “Tette in Su!” prodotto per Eretica Podcast e fra le coordinatrici della campagna nazionale “Libera di Abortire” per un libero accesso all’aborto in Italia. Contributor e presenza attivissima de Le Contemporanee.

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