Parlare di “libertà” di abortire, per molti può rappresentare una mera provocazione, perché dopotutto le donne non dovrebbero essere libere di abortire nell’immaginario collettivo, ma dovrebbero accedere alla pratica solo in casi limite tenendo sempre a mente che esistono i metodi contraccettivi moderni e che il loro aborto per essere approvato dovrà passare il vaglio prima del medico e poi dell’opinione pubblica.
Per chi ha realizzato e promosso la campagna nazionale “Libera di abortire”, non si è mai trattato di provocare, ma restituire una realtà che fin troppe volte viene fraintesa perché misconosciuta.
In Italia una donna non può accedere liberamente ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza perché a monte, il quadro normativo non lo permette. La legge 194/1978 ha avuto il grande merito di decriminalizzare l’aborto, ma questo non significa averlo leso legale e soprattutto, averlo liberalizzato come tanto auspicava la radicale femminista Adele Faccio. Lo spiega la comparativista Susanna Mancini nel suo “Un affare di donne”: nel nostro paese, ogni giorno da 44 anni, il principio cardine che vale e che ha condizionato le nostre vite e la nostra libertà di scelta è il divieto dell’aborto, e le situazioni in cui è permesso sono costruite normativamente come delle eccezioni.
Non è un caso che la legge parli di tutela della maternità e della vita umana dal suo inizio e non di “libertà con il corpo”, cittadinanza femminile responsabile e autodeterminazione, come non è un caso che nel testo di legge non si utilizzi la parola aborto, se non in una singola occasione connotandola negativamente. Secondo la ricercatrice legale Shonottra Kumar, la scelta di utilizzare diversivi linguistici in una norma riguardante l’aborto è legata alla ulteriore motivazione di non voler garantire direttamente alle donne una libertà di scelta o uno specifico diritto, ma piuttosto garantire tutela e protezione legale ai dottori fino a quel momento perseguiti per le interruzioni volontarie di gravidanza. Esattamente ciò che è successo in Italia con la legge dietro cui ci siamo trincerate per diversi anni.
La campagna “Libera di Abortire”, promossa da Radicali Italiani, UAAR, Non è un Veleno, IVG ho abortito e sto benissimo e diverse federazioni dei Giovani Democratici, a cui negli ultimi mesi si sono aggiunte decine di realtà politiche e civili, come LAIGA – Libera associazione italiana ginecologi per applicazione legge 194 e Associazione Farmacia Politica, ha cercato di proporre soluzioni che potessero funzionare all’interno di un sistema – quello delle interruzioni volontarie di gravidanza in Italia – di per sé carente a causa del numero altissimo di obiettori, delle violenze fisiche e psicologiche, testimoniate da centinaia di donne che hanno portato avanti un’interruzione di gravidanza nelle strutture pubbliche, dell’assenza di informazioni chiare e scientificamente corrette e delle azioni sabotatorie portate avanti dalle amministrazioni anti-abortiste.
I 7 punti dell’appello rivolto al Ministero della Salute puntano ad ottenere e assicurare la piena applicazione della legge 194, arrivando ad uno scenario mai effettivamente verificatosi in Italia.
Sarebbe possibile farlo attraverso i c.d. LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), introducendo un indicatore specifico, con peso significativo, che misuri la presenza/assenza di servizi per l’interruzione volontaria di gravidanza, i tempi d’attesa, la possibilità di scelta del metodo, l’estensione dei tempi per aborto farmacologico a 9 settimane da parte di tutti gli ospedali in adeguamento alle linee guida ministeriali di giugno 2020, cosicché le Regioni che non garantiscono tale prestazioni sarebbero penalizzate nel finanziamenti.
Ma sarebbe possibile farlo anche, e soprattutto, favorendo il ricorso alla telemedicina per i colloqui video tra paziente e medico e il rilascio telematico del certificato necessario per l’IVG, nel pieno rispetto dell’art.15 della legge 194: è proprio il testo di legge, infatti, a demandare la promozione “delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza”.
Fondamentale è stato intervenire anche sul fronte dell’informazione: è inaccettabile che un’istituzione come il Ministero della Salute ignori la necessità di fornire sul proprio portale informazioni chiare, scientifiche e laiche su come accedere ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza nel nostro Paese, eppure, a parte uno scarno monito di come l’Italia tuteli sempre e comunque la maternità, poco si trova nella sezione del sito dedicata al tema – ed è per questo che sono state richieste informazioni complete sull’aborto che includano una mappa delle strutture ospedaliere dove poter ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza e un vademecum esplicativo che riporti con chiarezza i diritti delle donne che vogliono accedere al servizio, i potenziali pericoli e ostacoli e come affrontarli.
A mancare nel nostro Paese – e a costituire, dunque, una violazione formale e sostanziale della legge 194 – sono percorsi di formazione e aggiornamento del personale sanitario. E’ fondamentale prevedere ambiti di adeguata formazione anche all’interno dei corsi universitari di medicina e chirurgia, di infermieristica, per operatori socio sanitari, oltre che nelle Scuole di specializzazione di ginecologia ed ostetricia – da cui il grande tema delle interruzioni volontarie di gravidanza sta scomparendo. E’ necessario, infatti, che vengano introdotte all’interno dei corsi lezioni specificamente incentrate e aggiornate sulle previsioni della legge 194 e sulle pratiche di interruzione volontaria di gravidanza.
Non ultimo, per applicare pienamente la legge 194, sarebbe cruciale promuovere i così tanto ostacolati a livello politico corsi ed incontri per approfondire le questioni relative all’educazione sessuale: si propone, infatti, la creazione di un fondo, di concerto con il Ministero dell’Istruzione, in favore delle Regioni per sostenere progetti e iniziative formative di lunga durata nelle scuole, che perseguano obiettivi quali lo sviluppo di una sessualità consapevole e responsabile. I programmi devono avere lo scopo di informare, formare e accompagnare i giovani e le giovani su tematiche quali i metodi contraccettivi, la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, l’esistenza e le modalità di accesso ai servizi di consulenza e a tutti i servizi sanitari relativi alla salute sessuale e riproduttiva disponibili sul territorio, incluso tutto ciò che riguarda il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, in termini di accesso, procedure e modalità.
Ma una volta reso efficiente e legale il servizio così inquadrato e limitato dalla 194 rimane inevasa l’esigenza aperta dalle battaglie femministe degli anni ‘70 e che da Adele Faccio arriva a noi: come possiamo introdurre il diritto all’aborto in Italia? Un diritto che l’Europa ci chiede e che gli Stati Uniti vantano dai tempi di Roe v. Wade (1973)? Un diritto che parli (finalmente) di privacy, di libertà personale, di procedura medica, che parli, insomma, di donne e di nessun altro?
Per poter arrivare a tale scenario più liberale, è necessario abbandonare le barricate di questi anni a difesa di quanto concesso 44 anni fa, Dobbiamo introdurre nel dibattito il concetto femminista per cui ogni aborto è valido, e lo è dal momento in cui la persona decide di accedere al sistema, senza distinzioni di sorta o giustificazioni da fornire che rientrano inevitabilmente nella morale personale infrangendo il confine invalicabile dell’autodeterminazione dei corpi. In questo modo riusciremo ad arginare il continuo attacco amministrativo e politico mosso dalla destra ai diritti riproduttivi, che oggi trova appigli proprio nella legge di compromesso come è stata la 194.
È essenziale ad esempio cominciare a raccontare, attraverso storie e vissuti differenti, che un aborto non può essere narrato in un unico modo – tragicamente, come si fa oggi – imponendo un singolo vissuto a tantissime identità. Se il racconto utilizzato negli anni ‘70 che voleva ogni aborto inevitabilmente drammatico, poteva servire a respongere l’idea che la sua liberalizzazione sarebbe servita a renderlo un metodo contraccettivo, oggi dobbiamo invece riconoscere che ogni donna può vevere il proprio aborto in modo differente e senza per questo sentirsi giudicata o soffrire di sensi di colpa.
Se questa è una sfida che riguarda la libertà e l’autoderminazione, allora da una parte dovremmo strutturare una continua e integrata informazione sessuale, dall’altra dovremmo cominciare a “normalizzare” l’aborto, renderlo una operazione medica a disposizione della libera scelta, senza stigma, senza colpevolizzazioni, senza giustificazioni, senza racconti imposti. Un’operazione medica neppure così complessa tanto da richiedere grandi centri specializzati separati dalle strutture ospedaliere, ma al contrario diffusa sul territorio, accessibile, anche tramite i consultori pubblici grazie ai metodi farmacologici per chi vorrà ricorrervi.
Il diritto ad una sessualità informata, consapevole e all’aborto finalmente libero, sarebbe un sostegno in più nel difficile cammino che ciascuna di noi deve intraprendere per rendersi più compiutamente libera di scegliere e di vivere.