“Se sto mondo fosse un mercato”, canta Mahmood, in quel gruppo da 32.000 iscritti si troverebbe ogni sfaccettatura di quella che siamo abituati ad identificare con la normalità.
Il normale uomo di famiglia.
Il normale compagno di attivismo.
Il normale lavoratore.
Il normale marito.
Il normale uomo di partito.
Eppure ti ha scattato una foto, l’ha condivisa senza consenso con tanti, ti ha mercificato in un processo in cui nemmeno per un secondo hai potuto decidere per te stessa. Ti ha messo in una gabbia come al circo; ingresso riservato agli uomini che vogliono godere della violenza sulle donne.
Sono stata fidanzata con uomini così, che non usavano Facebook, ma i gruppi whatsapp con gli amici, per fare lo stesso.
Sono stata amica di chi quella linea l’ha varcata in un viaggio verso il non ritorno.
Sono stata anche imparentata con chi ha fatto della propria supposta libertà, un’arma nei confronti di chi gli stava attorno.
Sono stata nello stesso partito di chi chiedeva nelle piazze l’educazione sessuo-affettiva per i nostri giovani, e poi era il 31.999 in quel gruppo.
Ho lavorato con chi si fregiava di essere femminista, e poi chiamava le compagne politiche, al telefono con rappresentanti nelle istituzioni, usando gli appellativi più degradanti e sessualizzanti che avessi mai sentito.
Nessuna lezione femminista, nessuna citazione presa da un manuale sul sessismo e la tossicità può riparare quello che si rompe in quel momento. Non esiste collante che sappia mettere insieme i pezzi che si formano quando senti quella crepa, d’improvviso, esplodere. A dirla tutta, non esistono nemmeno le parole adatte per spiegare come ci si possa sentire. Eppure quelle poche che vengono faticosamente in mente, chissà perché, le conosciamo tutte quante – ragazza dopo ragazza.
“Anche lui”, “anche io”.
E a quel punto, l’unica cosa normale diventa non sentirsi più al sicuro.
Quando Giulia Cecchettin è stata uccisa e l’intero paese si è fermato, illudendoci che le cose sarebbero cambiate, la poesia di Cristina Torre Cáceres è andata subito virale, un po’ perché anche il femminismo non sfugge alle dinamiche di engagement e marketing, un po’ perché non c’è persona che conosco che non riesca a rivedercisi come in uno specchio.
“Se domani sono io”
Ma “io”, tu, tutte quante, lo siamo ora – non domani. E affidarsi al fato, aggrapparsi alla speranza che gli uomini nelle nostre vite siano in qualche modo diversi, senza vedere in loro alcun lampo di voglia di imparare, correggersi, di lavorare su sé stessi affinché quel normale non sia più così normale, affinché l’identità maschile non coincida inesorabilmente con il bisogno di disporre delle donne, non porterà da nessuna parte.
Se non a sospirare, ancora, fino a che manca il fiato, “anche io”.