Istantanea

La Convenzione di Istanbul e le elettrici turche

La Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha più volte ricordato che “l’Unione Europea dovrebbe fare tutto il possibile per prevenire la violenza domestica, proteggere le vittime e punire i colpevoli”, ricordando l’importanza e l’impegno della Commissione all’adesione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e delle ragazze e la violenza domestica (c.d. Convenzione di Istanbul). Il Parlamento europeo ha sempre sostenuto tale posizione, evidenziando che, insieme ad una direttiva europea ad hoc sulla materia, l’adesione alla Convenzione da parte dell’Unione Europea avrebbe lanciato un messaggio forte rispetto all’impegno di sradicare la violenza contro le donne, anche attraverso l’istituzione di un forte quadro giuridico.

La Convenzione di Istanbul è il primo testo internazionale a precisare (art. 3) che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani ed è una forma di discriminazione contro le donne. Si tratta anche del primo strumento internazionale e giuridicamente vincolante a dare una definizione (art. 3) di violenza contro le donne, violenza domestica, genere, violenza di genere e a stabilire un quadro completo di misure giuridiche e politiche per prevenire tale violenza, sostenere le vittime e punire gli autori, creando così un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza.

Dopo 7 anni dalla prima proposta di adesione dell’Unione Europea alla Convenzione, il 10 maggio 2023, l’Unione Europea l’ha finalmente ratificata. Prima di quella data erano 21 gli Stati Membri[1] che l’avevano fatto, mentre altri (tra cui Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Lettonia, Lituania e Slovacchia) continuavano a porre il proprio diritto di veto sull’adesione unitaria. In un organismo di 27 stati membri in cui una donna su tre[2] ha subito violenza fisica e/o sessuale, tale ratifica significa voler trovare soluzioni ed obblighi concreti a queste forme di abuso, nonché esortare ad una lotta agli stereotipi e ai pregiudizi di genere. L’adesione è stata resa possibile dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, intervenendo con un pare, ha stabilito che la Convenzione di Istanbul può essere ratificata con un voto a maggioranza qualificata[3], senza quindi che i Paesi contrari possano bloccare la procedura.

La Convenzione di Istanbul prende il suo nome dalla città in cui il Comitato dei Ministri del Consiglio di Europa l’ha adottata il 7 aprile 2011. Il 12 marzo 2012 la Turchia è stato il primo Paese a ratificarla, seguita da altri 10 Stati, tra cui l’Italia il 19 giugno 2013. Ironicamente, la Turchia è stato anche il primo Paese ad aver revocato la propria partecipazione, un Paese in cui nel 2020 sono state assassinate almeno 300 donne, in cui nel 2022 i casi di violenza contro le donne che ne hanno causato la morte sono stati 397 e in cui ai cortei per i diritti delle donne partecipano più poliziotti antisommossa che manifestanti. Nonostante ciò, Erdogan ha avuto e continua ad avere un essenziale supporto da una consistente parte di popolazione femminile e anzi l’appoggio di donne conservatrici è stato fondamentale per l’ascesa al potere del presidente turco. Il giornalista Murat Yetkin ha evidenziato che quando il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (in turco Adalet ve Kalkınma Partisi- AKP) è arrivato al potere nel novembre 2002, circa il 55% dei voti che ha ricevuto provenivano da un elettorato femminile. Erdogan ha in effetti riconosciuto dignità alle donne musulmane che, prima del suo arrivo, venivano tenute lontane dalle istituzioni e dai ruoli di potere, ma anche dalle scuole e dalle università se indossavano i veli; adesso, invece, le stesse possono sedersi nel Parlamento e nei Comuni. La situazione, tuttavia, è radicalmente cambiata: se nel 2007 erano state promosse delle riforme radicali sullo status delle donne, in recenti dichiarazioni, il presidente ha sostenuto che l’uguaglianza di genere è “contro la natura umana” e che le donne lavoratrici sono “difettose”. Inoltre, nelle ultime elezioni si è alleato a partiti che cercano di smantellare i diritti femminili. Molte che sostenevano la sua ascesa si sono ricredute e, insieme a molte giovani, accusano Erdogan di una politica patriarcale e misogina e sostengono che le donne turche hanno diritti solo sulla carta. Basti pensare che negli ultimi anni sono aumentate le violenze domestiche e l’accesso all’aborto è diventato ormai quasi impossibile; lo stesso Erdogan ha equiparato l’aborto ad omicidio.

In queste settimane si è parlato molto di quanto l’elettorato femminile turco ricoprisse un ruolo importante per le ultime elezioni; alcuni partiti del blocco di opposizione avevano dichiarato di impegnarsi affinché la Turchia potesse tornare ad aderire alla Convenzione di Istanbul e Kılıçdaroğlu stesso, (leader dell’opposizione che si è presentato al ballottaggio del 28 maggio) aveva annunciato la promozione di dieci provvedimenti che potessero riqualificare il ruolo della donna in Turchia (tra cui promuovere le pari opportunità di impiego, eliminare le barriere per le donne imprenditrici, rafforzare i benefici sociali per le casalinghe, aumentare il numero degli asili).

La Convenzione di Istanbul, nelle ultime settimane, è stata quindi al centro di molte discussioni: da un lato, in senso stretto, si è parlato della sua ratifica nell’Unione Europea, dall’altro è servita a ricordare la precaria libertà di cui godono le donne turche. Forse è una mera coincidenza che, mentre in Turchia si discuteva dell’importanza dell’elettorato femminile, ormai privato di molti diritti e protezioni -riconosciuti da quella stessa Convenzione che non è più in vigore da due anni-, in Europa questa veniva finalmente accolta.


[1] Austria, Belgio, Croazia, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia, Spagna e Svezia

[2] che corrisponde a circa 62 milioni di donne

[3] raggiungimento del 55% degli Stati membri Ue che rappresentano almeno il 65% della popolazione totale

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CONTRIBUTOR

  • Francesca Valente

    Francesca Valente, triestina, femminista, appassionata di diritto del lavoro. Si laurea in giurisprudenza con una tesi interdisciplinare sullo sfruttamento del lavoro delle donne migranti. Durante il percorso accademico svolge un tirocinio curriculare prima nell'ufficio legale di I.C.S., Ufficio Rifugiati Onlus, poi nel centro di prima accoglienza Casa Malala. Prende parte al progetto Erasmus, trascorrendo sei mesi a Lione, dove frequenta corsi in Filosofia e Sociologia delle disuguaglianze e delle discriminazioni presso l'Institut d'études du travail de Lyon. Dottoranda con Adapt in Apprendimento ed Innovazione nei Contesti Sociali e di Lavoro presso l'Università di Siena, attualmente ricercatrice presso la FAI CISL. 

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