Istantanea

La Francia, la Prima ministra e il patriarcato.

Quando Mitterrand decise di nominare Edith Cresson a Matignon, nel lontano 1991, sapeva bene di trasgredire un lignaggio da sempre maschile e di esporre la prima donna ad occupare il ruolo di Prima ministra agli strali sessisti dei conservatori di destra e di sinistra. Senza sorprese, il governo di questa brillante donna politica durò un anno appena, infragilito dalle umiliazioni quotidiane inflittegli da una classe politica unita, in un perfetto accordo transpartisan, dal desiderio di mantenere il potere nelle mani degli uomini.

Ben diversa è la posizione di Macron in questo suo inizio di secondo mandato. Al momento di insediare Elisabeth Borne in qualità di Prima ministra, la nomina di una donna era attesa, anzi attesissima. E ci sarebbe probabilmente stata una levata di scudi se il capo dello Stato avesse scelto di ignorare gli appelli di una larga parte del paese, che chiede a gran voce parità e una migliore rappresentanza delle donne nei luoghi di potere.

Tutto bene, dunque? In apparenza, piuttosto. Il numero di donne candidate alle elezioni presidenziali non è mai stato così importante. E alla vigilia delle prossime cruciali elezioni legislative, che si terranno il 12 e il 19 giugno, è buona norma ricordare che la legge sulla parità, entrata in vigore nel 2000, impone ai partiti di presentare un identico numero di candidate donne e candidati uomini.

Eppure, se si guarda più da vicino la situazione in Francia, il patriarcato non trema, anzi. Il primo dossier “caldo” che ha dovuto affrontare Elisabeth Borne ha riguardato l’investitura di candidati e ministri accusati di violenze sessuali in seno al movimento di Macron, “La République en Marche” (LREM). Dapprima c’è stato il caso di Jérôme Peyrat, candidato alle elezioni legislative nel Sud-Ovest dela Francia, condannato per aver aggredito la sua compagna e averle causato un’incapacità lavorativa di 14 giorni. 

I movimenti femministi hanno rivelato gli antecedenti di Peyrat e fatto pressione, in particolare sui social, per escluderlo dalla competizione elettorale. Peyrat è stato finalmente scartato, ma dopo lunghe tergiversazioni e delle inopportune dichiarazioni del Segretario LREM e neo ministro nel governo Borne, Stanislas Guérini. Costui non ha esitato a definire Peyrat “un onest’uomo, incapace di essere violento”, descrizione che ha fatto imbufalire tutti i movimenti impegnati nella lotta contro le violenze sulle donne. 

Più imbarazzante ancora, per Borne, la presenza nel suo governo di Damien Abad, ministro della Solidarietà, accusato da due donne diverse di stupro. Ironia della sorte, la lotta contro la violenza sulle donne, (che Macron ha in gran pompa dichiarato essere la “Grande causa del quinquennio”), dipende proprio da questo ministero…

Fatto sta, la linea del governo è stata di trincerarsi dietro la presunzione di innoncenza, gettando alle ortiche quell’esemplarità che Macron aveva invocato sin dal 2017. E se Elisabreth Borne ha preferito non esprimersi, probabilmente poco a suo agio di fronte a questa costernante situazione, due dei suoi ministri più rappresentativi hanno svolto l’esercizio di difendere Damien Abad con fervore e convinzione: si tratta di Gérald Darmanin, ministro degli Interni, a sua volta accusato di abuso di potere e violenze sessuali allorché era sindaco di Turcoing, e Eric Dupond-Moretti, ministro della Giustizia, che si era distinto per aver definito “una banda di isteriche” le militanti di Me Too.

In corrispodenza con questi avvenimenti, è uscito in libreria il saggio di Mathilde Viot “L’homme politique, moi, j’en fais du compost”, che potrebbe essere tradotto più o meno con il titolo “L’uomo politico, io, lo riciclo in compost”. Mathilde Viot è stata per cinque anni assistente parlamentare in due partiti di sinistra, e ha fondato con altre attiviste “l’osservatorio delle violenze sessiste e sessuali in politica”. Nel libro, racconta la propria e altrui esperienza femminile, in un mondo – quello dell’Assemblea nazionale-  dominato da uomini borghesi, eterosessuali, bianchi e sicuri di sé, sempre pronti ad allungare la mano, a proferire sottintesi, a umiliare le donne, siano esse deputate o giovani collaboratrici. 

Il quadro che ne esce è, ahimé, terribile e senz’appello. Poiché al di là del volere dei singoli individui, si tratta di un sistema intero che schiaccia e stritola. Ma il libro finisce su una grande speranza, quella del femminismo che emancipa e riconfigura equilibri e dinamiche, anche nel mondo politico. Forse, più che alle statistiche sulla parità, dovremmo affidarci alle nostre capacità di riciclare il brutto per costruire un mondo più giusto ed egualitario.

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CONTRIBUTOR

  • Veronica Noseda

    Formatasi in scienze politiche e storia economica, vive a Parigi da più di 20 anni, dove lavora nel campo della salute pubblica e dell'aiuto allo sviluppo. Attiva in numerosi movimenti femministi e della difesa dei diritti LGBT, ha un particolare interesse per l'attivismo delle minoranze e la questione della loro rappresentazione nei media. Veronica collabora regolarmente come giornalista per la radio televisione svizzera italiana e Radio radicale.

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COMMENTI

Una risposta

  1. Ottima analisi.
    Ma da qualche giorno è peggio ancora per la prima Ministra che è sotto attacco per i suoi silenzi, per la sua mancanza di empatia, per la sua discrezione o per la sua antipatia. Una donna al potere va sempre criticata. Non è mai “abbastanza” o è sempre “troppo”. Succede esattamente lo stesso fenomeno nelle aziende. Si criticano le donne per la loro poca ambizione ma per quelle che osano malgrado tutto, diventa un inferno.

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