le opinioni

L’aborto e il declino americano

Care Contemporanee,
siamo tutti consapevoli che gli Stati Uniti sono un paese complesso. Nessuno può dare un giudizio sintetico assoluto su quella cultura sulla base di un singolo fatto. Ma la decisione della Corte Suprema sul diritto all’aborto non può impedire di fare una riflessione generale su un paese che per buona parte del XX secolo è stato teatro di lotte per i diritti civili, controverso, ma a cui si è ispirata a lungo l’Europa e anche molta parte del resto del mondo.

Che poi queste battaglie abbiano portato a una società migliore o più giusta sarebbe tutto da verificare, ma negli ultimi 80 -100 anni, gli Stati Uniti sono stati un modello che si “vendeva” bene, che aveva appeal. Dai successi del libero mercato alle lotte degli anni 60 e 70 contro la cultura patriarcale e repressiva, molto di quello che ha affascinato una larga parte del mondo (e certamente l’Europa) veniva dall’America. Tanto che si potrebbe sostenere che gli Stati Uniti abbiano conquistato la loro egemonia mondiale più con il fascino del loro modo di vivere che con le sciagurate guerre che hanno combattuto dopo la seconda guerra mondiale.

Lo spiega bene un bellissimo libro della storica italo-americana Victoria De Grazia, L’Impero irresistibile, del 2005, che racconta la forza dirompente, quasi rivoluzionaria degli stili di vita americani sul resto del mondo, auto affermatisi in modo tale che “in un solo secolo l’egemonia americana ha lasciato tracce [in tutto il mondo] altrettanto precise di quelle lasciate in quattrocento anni dall’Impero Romano” (pag 512) .

Eppure (si racconta nello stesso libro) la responsabile per la Diplomazia pubblica e le Relazioni pubbliche del Dipartimento di Stato, Charlotte Beers, considerata negli anni 2000 la regina del branding, e voluta da George Bush dopo gli attentati delle Torri Gemelle per riconquistare la simpatia del mondo, si dimise nel 2003 (al momento dell’invasione americana in Iraq) con queste parole: “Il divario tra ciò che siamo, ciò che vorremmo apparire, e ciò che gli altri vedono in noi è spaventosamente grande” (De Grazia, cit., pag. 506).

Ma con la sentenza sull’aborto non si tratta più di “ciò che gli altri vedono”, bensì di ciò che è. Oggi gli Usa sono un paese con la più alta percentuale al mondo dopo la Russia (guarda un po’) di popolazione carceraria rispetto al resto della popolazione: 726 carcerati ogni 100 mila abitanti (in Russia sono 730). Per non parlare della pena di morte. C’è un alto livello di violenza nella società in cui praticamente tutti, anche i neonati, posseggono almeno un’arma (statisticamente, quindi alcuni molte di più), in cui la polizia uccide circa mille persone l’anno (il 24% neri, nonostante siano solo il 13% della popolazione, dati Amnesty); nella quale il razzismo, nonostante le battaglie iconiche e epocali degli anni 60, è ancora diffusissimo (il caso Flloyd è solo un esempio). È la società nella quale le stragi a scuola sono praticamente

giornaliere, e questa è la prima causa di morte dei giovani dagli 0 ai 18 anni (hanno superato gli incidenti stradali qualche anno fa). Come tutti sanno negli Usa per un ventenne è più facile comprare un kalashnikov che una birra.

Tralascio qui la politica estera degli Stati Uniti, perché particolarmente divisiva, anche se sotto gli occhi di tutti, ma vorrei puntare soltanto a un caso, quello di Julian Assange, che gli Usa vogliono sbattere in galera per circa 170 anni (dopo un giusto processo, ovviamente) per avere fatto il giornalista, per avere rivelato ciò che qualunque giornalista sognerebbe di rivelare, le nefandezze di alcune amministrazioni americane nel mondo e in casa loro.

Sull’aborto, una disgrazia di cui le donne sono protagoniste, loro malgrado, da sempre, gli Usa presero una decisione che valeva a livello federale nel 73 (la ormai celebre Roe vs Wade), e così hanno ridotto progressivamente la piaga degli aborti clandestini, così come è successo nel resto del mondo occidentale (e in Italia dal 1978). Da allora gli aborti, dopo una fiammata iniziale, sono progressivamente diminuiti, negli Usa, ma anche in Italia. E’ vero che esiste il problema dell’obiezione di coscienza, scelta forse non sempre genuina, e certamente problematica per le istituzioni pubbliche. Ma la progressiva diffusione della contraccezione e dell’educazione sessuale (sempre tra mille controversie), la maggiore autonomia e consapevolezza delle donne, e la possibilità di parlare e praticare alla luce del sole ciò che prima avveniva illegalmente, tutti questi fattori hanno portato proprio a ciò che i difensori della legge sostenevano, cioè di fatto al calo degli aborti.

Ecco ora l’America sembra tornare al punto zero, e con un senso di rivalsa che rende tutto ancora più orribile.

Qualcuno dirà cosa c’entra l’aborto? Cosa c’entra con le armi o con l’immagine dell’America nel mondo, per non parlare della sua politica estera (eufemismo per descrivere l’attitudine a intervenire in altri paesi, dall’America Latina al Vietnam all’Iraq, all’Afganistan, la Libia, la Serbia)?

Credo che c’entri moltissimo. Perché le decisioni che riguardano le donne in una società vanno a toccare le fondamenta stesse della convivenza. Perché da molto tempo sappiamo che la mentalità, la cosiddetta “cultura”, non è fatto di singole parti slegate tra loro, ma ha la forza di un organismo. Il potere dei significati corre nella cultura intera di un paese, di una comunità. Chi vuole controllare il corpo delle donne e la loro stessa vita, vuole controllare il corpo e la vita di tutti. Una donna che non può decidere, entro limiti regolati della legge, del proprio corpo, è come un nero che viene ucciso dalla polizia, è come un immigrato che non riesce ad avere il diritto di voto, è come un bambino vittima di un’invasione in un lontano paese semisconosciuto. Il benessere e la libertà delle donne sono lo specchio del livello di benessere e di libertà di quel paese in tutti i campi della vita e della politica.

Quello che succede negli Stati Uniti non è più qualcosa che stupisce, ma che si inserisce in un quadro di ineguaglianze, discriminazioni, violenze, razzismi, profondamente radicati nella società americana, e il cui livello è perfino inconcepibile per noi europei. Non si tratta semplicemente dello scontro politico tra repubblicani e democratici, come spesso viene descritto, ma di qualcosa di molto più profondo.

Poi, certo, si potrà ancora apprezzare il fascino della colta società newyorkese, così cool, o la cultura democratica con l’equilibrio di poteri magnificato già da Tocqueville, oppure la good life californiana. Ma tutto questo appare non più trainante nella società Usa, e non fa velo al puritanesimo di ritorno e al falso perbenismo, al razzismo, alla violenza dilagante raccontati dalla cronaca, dalla letteratura, dai film, dalle serie tv, ancora più che dalle analisi sociologiche. La decisione sull’aborto ci parla di una società, sì, complessa e contraddittoria, ma che appare sempre di più profondamente malata.

Concludo dicendo che, in fondo, la sentenza della Corte Suprema sull’aborto mi scandalizza, ma non mi stupisce. In molti siamo convinti che, su questa scia, altri diritti saranno attaccati, e altre illusioni cadranno. Mi dispiace che in Europa ancora molti rivendichino come atto di eroismo una scelta politica semplicemente necessaria e inevitabile dal secondo dopoguerra in poi (il nostro cosiddetto Atlantismo), ma che oggi meriterebbe qualche riflessione in più. Soprattutto spero che l’Europa si accorga quanto essa sia diversa da quel mondo. Oggi più di prima. Forse ancora, e con tutti i limiti possibili e immaginabili, ancora il miglior posto del mondo dove vivere (con buona pace della Brexit). Un’Europa che per tanti motivi potrebbe essere sempre più coscientemente la guida morale e politica del mondo occidentale. Senza più sensi di inferiorità, vecchi di almeno 70 anni, rispetto a una realtà come quella degli Usa, oggi così lontana dal nostro sogno americano.

LA PAROLA A VOI

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CONTRIBUTOR

  • Angela Padrone

    Angela Padrone, giornalista e scrittrice. È laureata in Filosofia e si è formata seguendo studi di Storia e soprattutto di Antropologia Culturale. Per una vita ha lavorato al Messaggero. Ha scritto libri sui giovani, il lavoro e le donne: "Precari e Contenti", "La sfida degli Outsider", "Imprese da Favola", tutti con Marsilio. Ama nuotare e insegna  i Vini del Mondo per il Wine and Spirit Education Trust.

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