Povertà, insicurezza alimentare, cambiamenti climatici, conflitti, crisi economica e pandemia: i rapporti delle ultime settimane registrano dati allarmanti che riguardano la popolazione mondiale, ed in particolare le donne.
L’edizione 2022 del rapporto delle Nazioni Unite “Lo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo” (SOFI), resa pubblica il 6 luglio scorso, evidenzia “l’intensificazione dei principali fattori di insicurezza alimentare e malnutrizione: conflitti, eventi climatici estremi e crisi economiche, uniti alle crescenti disuguaglianze.”
Abbiamo parlato di tutto questo con Emma Bonino, Senatrice di +Europa, già Ministro degli Affari Esteri ed ex Commissaria europea.
D: Quanto incidono e incideranno i dati sulla sicurezza alimentare e il gender gap sulla migrazione? In Paesi nei quali già conflitti, povertà e disuguaglianze colpiscono pesantemente la popolazione, e spostarsi è l’unica possibilità di sopravvivenza?
EB: Certo incidono. Le persone cercano dai tempi dell’umanità migliori opportunità e si muovono come pesci, non sono alberi. Se non si hanno opportunità nel Paese dove si è nati e, peggio, se non si ha cibo, cosa dovrebbero fare? Basti considerare su tutto la carestia alimentare che ci riguarda qui ed ora. Per molti Paesi della parte più povera del mondo, i meccanismi di produzione degli alimenti e la loro successiva distribuzione si sono tragicamente inceppati. In particolare i Paesi africani si ritrovano, a seguito della crisi pandemica e per il conflitto ucraino, nell’impossibilità di poter importare le sufficienti quantità di materie prime, come il frumento, di cui l’Ucraina è il quinto esportatore mondiale. Se si pensa che i prezzi dei fertilizzanti sono aumentati del 320% e che proprio i Paesi più poveri soffrono della mancanza d’acqua, ulteriormente aggravata dai cambiamenti climatici, il problema ormai non è se la carestia ci sarà, ma quali dimensioni avrà e che conseguenza determinerà sui flussi migratori.
D: La situazione delle donne in tali contesti è pesantemente aggravata da forti limitazioni delle libertà o dalla revoca di diritti fondamentali. Recentemente il Presidente del Consiglio per i Diritti Umani Federico Villegas ha accolto la richiesta della Francia e dell’UE per intavolare urgentemente un dibattito sullasituazione dei diritti umani delle donne e delle ragazze afghane. A quasi un anno dall’insediamento dei Talebani, quale è la situazione delle donne che sono rimaste lì e di quelle che hanno trovato, o cercano rifugio, fuori dal paese?
EB: La situazione è quella che c’era prima delle elezioni. Quando nel 1997 andai a Kabul come Commissaria europea per gli aiuti umanitari e guardavo le donne in burka, comparandole alle foto ridenti delle donne afgane vestite all’occidentale degli anni ’60, mi si accapponava la pelle. E ora provo lo stesso sentimento, consapevole che vent’anni di occupazione occidentale non sono serviti a nulla. Insisto che occorra non riconoscere come legittimo il governo dei talebani. Ma, oramai la comunità internazionale è concentrata sulla tragedia dell’Ucraina e mi pare che l’Afghanistan sia oramai passato nell’oblio dell’opinione pubblica.
D: Impossibile non pensare in questo contesto alledonne ucrainevittime della guerra. Numerose le violenze sessuali dell’esercito russo ai danni di donne, bambini e uomini. Come vivono oggi queste donne? Quelle che partono e quelle che restano in un paese in guerra?
EB: Lo scorso 22 giugno, il Senato ha approvato una mozione di estrema importanza, come sostegno all’attività di indagine della Corte Penale Internazionale (CPI) nei casi di violenza contro le donne nei conflitti, riconoscendo l’utilità dell’attività della CPI come strumento non militare, a mio avviso, molto utile e un po’ sottovalutato, nella lotta contro l’impunità. Da oltre cento giorni in Ucraina assistiamo a immani violenze contro le donne. E non è certo una novità. Da anni mi batto per riconoscere che lo stupro e le violenze contro le donne in caso di guerra, rappresentano un’ulteriore arma di guerra. E oltre a questo molte donne, stuprate e rimaste incinta si vedono negare nei Paesi di accoglienza la libertà di abortire, perché in Ue vige lo stesso regime come disciplinato dalla sentenza della Corte suprema statunitense pochi giorni fa: sono gli Stati membri a disciplinare la possibilità di abortire, che negli Usa non è più un diritto costituzionalmente garantito e nei Paesi europei non lo è mai stato. Gli umanitari fanno quello che possono, aiutando questi profughi e le donne, sostituendosi come sempre al fallimento della politica, in Paesi di accoglienza come la Polonia. Ma serve un impegno maggiore da parte di ciascuno. Lo dobbiamo a tutte quelle donne che sono state usate, umiliate e violate nella loro integrità psico-fisica.
D: Mentre in Italia discutiamo ancora su quale tipo di “ius” concedere agli immigrati di seconda generazione, le rivendicazioni dei diritti fondamentali e necessari, per chi vive in questo paese senza riconoscimenti, stanno diventando sempre più ampie, penso alla protesta delle settimane scorse diAboubakar Soumahoro sindacalista della lega dei braccianti: la voce dei lavoratori e lavoratrici invisibili. Come agire difronte a tali necessità?
EB: Sui diritti nel nostro Paese non è mai il momento. È così su eutanasia, legalizzazione della cannabis, ius scolae. Non sono certa ci sia la volontà, anche dei partiti che si definiscono progressisti, di riuscire ad ampliare il ventaglio dei diritti civili per i cittadini e lo dico con una certa amarezza. Ma non bisogna mollare. Nella mia esperienza ho imparato che solo la testardaggine e la cocciutaggine possono riuscire a fare breccia e garantire più diritti e libertà per tutti. E mentre da Confindustria a Confatigianato si denuncia una penuria di lavoratori, che vorrebbero andare a prendere con gli aerei da chissà dove, noi che facciamo? Perché non guardare ai 500 mila irregolari che abbiamo già nel nostro Paese?
D: E’ possibile una riforma in tal senso che prenda in considerazione la complessità del fenomeno, la moltiplicazione dei fronti e dei motivi della migrazione, e definisca una politica a riguardo?
EB: Abbiamo presentato in Parlamento durante la scorsa legislatura una proposta di legge di iniziativa popolare, che si è provato a replicare anche a livello europeo, ma che giace nei cassetti polverosi della Camera. Infatti, al dovere prioritario di accogliere le persone bisognose di protezione, va affiancato l’obiettivo, altrettanto necessario, di promuovere processi di inclusione sociale nei territori dei cittadini stranieri presenti in Italia: ottenere tale risultato, infatti, significa innanzitutto diminuire le probabilità di conflitto sociale, aumentare la legalità ed erodere il lavoro nero e lo sfruttamento, oltre che offrire opportunità di benessere all’intera collettività, anche in termini di maggiori introiti per lo Stato di cittadini che, se regolarizzati, possono versare tasse e contributi, oltre che tamponare l’emorragia di natalità del nostro Paese.
Occorrono radicali riforme per affrontare le sfide mondiali che inevitabilmente avranno come esito ingenti spostamenti di persone, ma si continua a passare da una tragedia all’altra senza avere uno sguardo di lungo periodo sui processi che si determineranno negli anni a venire.