Chiara Ferragni. Basta il nome per comprendere la portata del potere mediatico del brand omonimo, come anche l’onda di polemiche conseguenti a ogni sua parola, azione o sponsorizzazione pubblicata sui suoi social. Ferragni è un marchio prestigioso e noi ci siamo lentamente abituat* a sentirne parlare ovunque.
L’ultima notizia che la vede oggetto di lodi e critiche in egual misura riguarda la sua dichiarazione risalente al 12 gennaio. L’imprenditrice ha infatti espresso di voler donare l’intero compenso per la sua presenza al Festival di Sanremo a D.i.Re – DONNE IN RETE CONTRO LA VIOLENZA, ovvero La Rete nazionale antiviolenza gestita da organizzazioni di donne.
Si tratta di un gesto importante, effettuato da una privata, ma che inevitabilmente fa pensare all’iniquità di un Paese dove la violenza di genere colpisce senza esclusione di colpi quasi ogni donna, o persona female presenting; un Paese dove il numero di CAV (centri antiviolenza) e case rifugio dagli uomini maltrattanti risulta troppo esiguo per soddisfare tutte le richieste, e dove ogni donna vittima di violenza spesso si trova a scontrarsi con muri situazionali – oltre che culturali – di cui le istituzioni non sembrano tenere conto: disoccupazione e povertà (quindi dipendenza economica dall’abusante), una disabilità, dei figli a carico, autostima segnata dagli abusi psicologici, traumi e ptsd.
Il dono di Ferragni, al di là delle motivazioni e della sua preparazione in merito, sarebbe da prendere con le pinze secondo alcuni. Tante le polemiche, abbiamo detto, ma vediamone alcune nello specifico. La più nota insinua che l’imprenditrice avrebbe deciso – o il suo staff per lei – di donare l’intero cachet unicamente per un ritorno pubblicità, insomma, per visibilità. E già fa ridere così pensare che la donna italiana più visibile al mondo necessiterebbe di ulteriori visual per il suo brand.
Altra polemica riguarda la presunta strumentalizzazione della violenza contro le donne per mettere una pezza sulle precedenti critiche da lei ricevute. A questa aggiungiamo forse quella che più di tutte andrebbe ragionata a fondo, ovvero del fatto che, anche se ogni aiuto andrebbe sempre apprezzato, non dovrebbero essere l* privat* cittadin* a finanziare tramite donazioni un servizio che dovrebbe assicurare lo Stato. In poche parole: siamo in una situazione in cui, in Italia, servono i milionari benevolenti per assicurare un tetto e un aiuto alle donne abusate, cosa che le Istituzioni tardano a fare.
È fondamentale tenere a mente che nel solo 2022 sono stati 120 i femminicidi commessi, in aumento se teniamo conto l’anno precedente. Il caso dell’avvocata Martina Scialdone, uccisa dall’ex con un colpo di pistola è uno dei più recenti. Una donna su tre dichiara di aver subito una qualche forma di violenza, da quella fisica a quella sessuale, e quasi sempre non denuncia (dati ISTAT e Ministero della Salute). Proprio durante una veglia per Scialdone a Roma, la senatrice Valeria Valente ha ribadito la necessità di inquadrare il femminicidio come il vertice di una piramide di violenza – identificabile nella cultura dello stupro: bisogna imparare a riconoscere i segnali, ma soprattutto è essenziale imparare a farlo quando le vittime non siamo noi ma ci passano a fianco.
Contiamo poi la violenza sanitaria, quindi anche quella ginecologica e quella ostetrica – un recente caso di groom-in di una madre abbandonata in ospedale col figlio lasciato in braccio, poi deceduto, sta riportando alla luce un problema gravissimo – e infine la transfobia sulle donne trans e non binary people female presenting, del tutto ignorata o vista come violenza a parte, quasi di un terzo genere.
L’Italia ha un problema con le donne, come abbiamo visto, dalle narrazioni colpevolizzanti di certa stampa alla negazione della sistematicità trasversale del fenomeno, riducendo il tutto a episodiche tragedie o a mele marce: niente di più sbagliato. Fino alla carenza di fondi e agli attacchi contro la creazione dal basso di mutuo aiuto. Ricordiamo in questo caso la scandalosa guerra di logoramento intrapresa da Atac contro la casa delle donne Lucha y Siesta – realtà che si occupa di aiutare le donne vittime di violenza a rifarsi una vita dignitosa ricominciando da zero – usufruendo di quella che era una proprietà dell’agenzia dei trasporti del Comune di Roma già abbandonata da anni, ma di questo parleremo prossimamente.
Ferragni come sempre ha suscitato un polverone, ma oltre a smuovere gli algoritmi delle piattaforme social e a far sfregare le mani ai media, non va dimenticato che quello rappresentato dal brand che porta il suo nome risulta un potente megafono: se ne parla Ferragni allora deve essere importante; se ne parla Ferragni allora bisogna informarsi (anche solo per stare sul pezzo in attesa della prossima polemica del giorno), se ne parla lei allora possiamo puntare l’obiettivo su tutte quelle piccole realtà che da anni si battono per fare la differenza, ma che non possedendo tale visibilità necessitano di fondi per andare avanti, o quantomeno spazio sui media per protestare contro un’ingiustizia.
Ci auguriamo che con il suo gesto Ferragni spinga non tanto a ispirare chi la venera a fare lo stesso, donando ai CAV e alle associazioni spiccioli di cortesia o assegni importanti, quanto a fare pressioni in massa sulle istituzioni per chiedere ulteriori finanziamenti, progetti di educazione obbligatori contro la violenza di genere e per la responsabilizzazione cittadina, tra cui l’educazione sessuoaffettiva, la concessione di spazi adatti a ospitare chi esce da contesti abusanti, pene e controlli adeguati per gli abuser, dati aggiornati e facilmente accessibili, e soprattutto un reddito in grado di aiutare le survivor a riprendersi la vita.