le opinioni

Lavoro e salari, la rivoluzione inesorabile e (per ora) silenziosa

Il tema del lavoro, del lavoro di qualità, dei salari, sta esplodendo in Italia.

L’alta inflazione che corrode il potere d’acquisto é ormai insopportabile in un Paese in cui, al contrario del resto d’Europa, i salari sono negli ultimi venti anni decresciuti di oltre il 3 per cento e in cui non si vedono all’orizzonte svolte significative. 

La Premier Meloni sembra puntare su misure di ulteriore taglio del cuneo fiscale, mentre la neo Segretaria del Partito Democratico Elly Schlein appare orientata ad affrontare con urgenza il tema del salario minimo.

Spesso queste due strategie, anche per semplificazione comunicativa e dialettica politica tra maggioranza e opposizione, vengono proposte come vie alternative.

A ben guardare però, vista la gravità e unicità della situazione italiana, le due vie sono entrambe corrette e anzi andrebbero messe rapidamente in agenda.

Un ulteriore taglio sostanzioso del cuneo fiscale alleggerirebbe imprenditori e renderebbe le tasche di lavoratrici e lavoratori immediatamente più piene.

Il salario minimo, ormai applicato in quasi tutta Europa, fissato su una cifra ragionevole (si parla spesso del 60 % del salario mediano), andrebbe a ricollocare su livelli accettabili il cosiddetto lavoro povero e a dare maggiore consapevolezza a chi acconsente a lavori sottopagati, sperando che chi colpito da queste vessazioni decida di denunciare alle autorità competenti violazioni in questo senso.

Chi dice che il salario minimo andrebbe ad aumentare la schiera di lavoratori in nero, sbaglia: il salario minimo crea una maggiore consapevolezza su ciò che sia proponibile e accettabile e ciò che è illegalità e sfruttamento, un confine in Italia da sempre molto labile e per nulla chiaro. 

Esiste una cultura del lavoro e del buon lavoro, che va ricostruita in Italia. E non riguarda, come spesso si tende a pensare, esclusivamente il lavoro povero o gli espulsi dal mercato del lavoro, peraltro in assoluta maggioranza donne.

Proprio per questo parlare di cuneo contributivo e salario minimo non basta. L’occupazione e la buona occupazione la creano soprattutto le imprese, meglio se medie e grandi. 

Le grandi imprese in Italia sono ancora troppo poche. 

I livelli salariali di queste imprese sono certamente migliori della media delle retribuzioni italiane, una media determinata dal segmento delle pmi (circa 29.600 € annui, RAL lorda annuale) ma sono in media più basse a parità di azienda e di mansione delle altre filiali europee, anche spogliando il dato da fattori determinati dal potere d’acquisto. Vale a dire che persino due manager della stessa multinazionale a Roma e a Parigi, guadagnano cifre sensibilmente diverse e non sempre giustificabili con il costo della vita.

Questo gap a sfavore italiano, da cosa è dovuto?

In buona sostanza é dovuto alle inefficienze sistemiche del nostro Paese: scarse infrastrutture,  burocrazia, lentezza della giustizia civile, buon capitale umano qualificato ma in numeri assoluti inferiore a quello di altri paesi, basso livello di digitalizzazione.

In sostanza tutte queste cose che non funzionano a dovere e che conteggiamo spesso in termini di PIL mancato, diventano utili in meno per le aziende che quindi lesinano sui salari per rendere il nostro Paese comunque attrattivo per aprire o tenere ancora aperta una sede in una delle principali città italiane. 

Nell’agenda di tutti i partiti politici di maggioranza e opposizione il tema salariale andrà affrontato con un approccio sistemico. Se frammenteremo la questione in mille rivoli o peggio in curva sud e curva nord, avremo la certezza di costringere il Paese a un’inutile lotta tra poveri, poveri che sono in ogni stratificazione sociale e in ogni lavoro, dell’operaio al manager, spesso accomunati da un numero spaventoso di ore no stop con benefici nettamente inferiori rispetto al collega di qualsiasi altra città europea. 

Se in Francia si protesta per la pensione a 64 anni (e il riflesso italiano naturale è chiedersi di che si lamentino), uno stato europeo in cui è forte il tema del diritto al tempo libero, dove si é ottenuta la settimana da 35 ore, in un Paese dove i salari negli ultimi anni sono cresciuti moltissimo, in Italia ancora manca una riflessione importante sul senso del lavoro, come migliorare la qualità della vita e dei salari nel complesso. Permane soprattutto una grande distanza e percezione delle priorità tra generazioni su pensioni, mestieri, competenze, salari. 

Non stupiamoci poi se un po’ ovunque e anche in Italia accade il fenomeno delle great resignation o della non accettazione di lavori malpagati o non qualificanti da parte soprattutto dei più giovani, tra i quali sta crescendo una qualche consapevolezza.

È naturale. Non siamo ancora in piazza, ma presto accadrà. E non sarà affatto un male. Ma dovremo pretendere una agenda composita da chi ci rappresenta, nei sindacati, al governo e all’opposizione.

Non risposte facili a domande complesse. Non toppe frettolose a rivoluzioni profonde silenziose e richieste di senso.

LA PAROLA A VOI

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CONTRIBUTOR

  • Valeria Manieri

    Classe 84, esperta di comunicazione e politica, Cofounder de Le Contemporanee. Lavora da anni con Radio Radicale e collabora con diverse testate, tra cui Io Donna - Corriere della Sera, Il Foglio e Milano Finanza.

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