LA LEZIONE DI PAOLA CORTELLESI: per il diritto di contare, C’è (sempre) Ancora Domani

Non ho mai conosciuto mio nonno, morto almeno  un decennio prima che io nascessi. Ma mi è stato ampiamente tramandato (con un riserbo che non ha mai nascosto l’evidenza) che tipo di uomo fosse: un segaligno muratore degli anni ‘20, rigido, corrucciato, di quelli che non accennavano mai a dar adito – nè nel mezzo busto delle foto, nè tantomeno nella vita – all’ombra di un sorriso.

Di lui, restava il reverenziale timore sospeso, a fronte di quegli sguardi con cui riusciva a soffocare le risate delle sue figlie, qualora le giudicasse “eccessive.” Rimanevano i suoi rimproveri, la sua ira, i suoi divieti: che sempre incontravano un magico rovesciamento, come in un gioco di specchi e di magia, nel buonumore, nell’ottimismo e nella leggerezza di sua moglie, che poi, era mia nonna; che con i suoi capelli biondi scolpiti dai bigodini e la sigaretta clandestina, attendeva che lui crollasse addormentato per lasciar uscir le figlie. 

L’universo di Paola Cortellesi, alla sua prima  prova registica con “C’è ancora domani”, riporta in vita i volti di quegli uomini affettivamente afasici, e di quelle donne col grembiule il cui tramestio, malgrado la resa apparente ad una vita di servizio, di fatto, non si è mai fermato. E la sua eroina, Delia, di questa straordinarietà nella calma apparente diviene il potentissimo emblema: donna di casa con “il vizio di ribattere”, si arrabatta tra mille lavoretti, sullo sfondo d’una Roma liberata, mentre subisce i “malumori” (e con essi, le percosse) del crudele e violento marito Ivano.

Unica fonte di orgoglio, per Delia, è la figlia Marcella: arguta ed intelligente, la giovane ha tuttavia dovuto ben presto rinunciare al proprio sogno di proseguire gli studi scolastici, vendendo avviata al lavoro presso una stireria, per lasciar spazio ai due fratelli “nati uomini.” L’unica speranza di Marcella di aspirare ad una vita migliore sembra consistere nel matrimonio con Giulio, rampollo di una famiglia abbiente, divenuta titolare di un esercizio dopo aver fatto fortuna, durante gli anni della guerra, con “la borsa nera.”

Ma quando Delia intravede nel futuro genero il seme di quella stessa violenza che la ha incatenata al matrimonio infelice ed abusatorio con Ivano, il suo apparente immobilismo si trasforma in una ferma volontà di cambiare il destino di sua figlia. E forse, anche il proprio.

Vista da oltre 1,2 milioni di spettatori, con un incasso di quasi 19 milioni di euro, l’opera prima di Paola Cortellesi è una potente dichiarazione d’amore alle donne; alla loro forza e al loro orgoglio; alla loro fame di voce e di libertà. Tanto è vero che il passepartout stesso per l’affrancamento di Delia dalla sua condizione di perpetuo asservimento alla brutalità di Ivano non è un impossibile sogno romantico con lo sfasciacarrozze Nino, amore sfumato della gioventù: ma la sua prima tessera elettorale. 

Raggiungendo Delia per posta, malgrado la sua iniziale incredulità, quel fragile pezzo di carta riesce nel miracolo di restituirle fiducia in sé , nonchè in quel “domani” che, finalmente cessando di ritenerla invisibile, l’ha voluta chiamare alle urne per votare.

Il messaggio di Paola Cortellesi assume consistenza plastica in quella scalinata prospiciente il seggio, gremita di donne che, a testa alta, fanno da scudo a Delia, sfidando Ivano ad avere il coraggio di colpirla non più nel segreto delle quattro mure domestiche: ma alla luce del sole, smascherando la violenza di quella barbarie da troppo, troppo tempo (come ci raccontano le scene di danza) derubricata a coreografica routine.

Di qui, l’appello di Cortellesi alla Presidente del Consiglio Meloni, e alla Segretaria del Partito Democratico Elly Schlein: “Occorre un tavolo condiviso sull’educazione, come strumento di prevenzione della violenza contro le donne.”

A pochi giorni di distanza dalla Giornata Internazionale per l’eliminazione della Violenza Contro le Donne, nonchè dall’assassinio della ventiduenne Giulia Cecchettin, per mano dell’ex fidanzato Filippo Turetta, la sensibilità della lezione di Paola Cortellesi non può cadere nel vuoto. Se l’invisibilità, l’omertà e la connivenza non possono infatti che dare adito alla cultura della violenza, incentivando i fenomeni sommersi,  la partecipazione attiva, la costruzione di reti e la formazione sono, viceversa, gli unici strumenti per dare impulso alla nascita di una nuova cultura del rispetto, e della parità.

Ma la sua carezza, affettuosa e a tratti materna, si rivolge soprattutto alle ragazze che “puntano i piedi”: alle giovani che “vogliono andare a scuola”; alle lavandare che “non rinunciano a dire la propria”; alle spose che non devono mai correre il rischio di restare un passo indietro, scambiando il fuoco d’un amore con la pretesa egoistica dell’autorità; alle giovani come Giulia, stroncate da chi trema di fronte al successo dei loro studi e alla fierezza della loro indipendenza. Di nuovo, il pensiero corre alla mia nonna: si chiamava Silvana, come la Mangano; il suo nome derivava dal latino, “silva”; ”che viene dalla selva”;  selvatica, per l’appunto, non addomesticata; l’appellativo che s’addiceva ad una pianta non coltivata all’interno di una serra; un nome con già  dentro la pretesa di una che aveva fatto – sempre –  tutto da sè.

Era il 1981: e la federazione Cgil, Cisl e Uil si riuniva a Roma per l’Ottavo Congresso Nazionale. Mia nonna, sindacalista dei tessili, fece armi e bagagli per partire; ma suo marito  (come spesso accadeva) fu irremovibile. “Tu non vai da nessuna parte.”

La Silvana, però, non era nata in una serra: e quel divieto si trasformò ben presto in un paio di collant infilati in fretta e furia, per scapicollarsi verso la stazione. 

A distanza di più di quarant’anni, una tenera certezza m’assale: il film di Paola Cortellesi, in un certo qual senso, è per lei.

Ma anche per voi, per noi, per me: e per qualsiasi donna che, in qualunque parte del mondo, anche oggi, non accetterà di chinare la testa; anche oggi, non cesserà mai di tenere a mente che in fondo, per il diritto di contare, c’è (sempre) ancora domani. 

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  • Rebecca Loffi

    Rebecca Loffi ha conseguito la laurea in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Milano nel 2016, specializzandosi in Comunicazione.  Attualmente, svolge attività di ufficio stampa per il terzo settore, con particolare riguardo alla fragilità. Da sempre vicina all'associazionismo e alla lotta attiva per i diritti civili, fa parte dell’Associazione Radicale Fabiano Antoniani, nata dalla difesa del fine vita.

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