le opinioni

Rappresentanza femminile

Durante la Conferenza di fine anno del Presidente Giorgia Meloni, il giornalista de il Tempo Edoardo Romagnoli, le ha chiesto un’opinione rispetto a quanto dichiarato dalla senatrice di Fratelli d’Italia, Lavina Mennuni. A questa domanda, il Premier ha risposto «[…] io non so dirle se la parola aspirazione sia una parola giusta, però…» però, di fatto, tutta la risposta si concentra sull’opportunità delle donne di mettere al mondo de+ bambin+. Ancora una volta, è questo binomio maternità-lavoro ad essere sbagliato: Meloni sostiene che le donne devono essere libere. Libere di poter fare figl+. Queste affermazioni non rappresentano me né tante altre donne della mia generazione e proprio da ciò sono partita: com’è possibile che la politica continui a sostenere e a promuovere ideali così anacronistici. In effetti, chi rappresenta questa politica?

Viviamo in «Un sistema familiare-sociale, ideologico e politico in cui gli uomini, con la forza, la pressione diretta o attraverso il rituale, la tradizione, la legge e il linguaggio, i costumi, il galateo, l’educazione e la divisione del lavoro, determinano il ruolo che le donne devono o non devono svolgere, in cui la donna è ovunque sottomessa al maschio.» e ciò ha -ovviamente- effetti anche sulla vita politica, la quale è organizzata secondo norme e valori maschili, ma anche secondo stili di vita che si basano sull’uomo. Ciò crea delle barriere istituzionali che fanno sì che le donne continuino ad avere ancora molta difficoltà ad inserirsi negli ambienti politici.

Tali barriere istituzionali sono la conseguenza di barriere culturali, che modellano il rapporto delle donne con la politica. Ciò comporta che, quelle come Meloni che rompono il tetto di cristallo, provengono da un ambiente dominato dagli uomini, agiscono come questi e legittimano una cultura politica patriarcale. In questo modo continuano a sostenere ideali maschili, senza dare effettiva voce a quella metà di popolazione ancora così poco rappresentata.

«Io sono Presidente del Consiglio dei ministri, sono forse la donna considerata oggi, che potrebbe temporaneamente essere considerata, tra le più affermate in Italia; e se lei mi chiedesse cosa scegliere tra la Presidenza del Consiglio dei ministri e mia figlia Ginevra, io non avrei dubbi, come qualsiasi altra madre».

Questa dichiarazione fatta da Giorgia Meloni durante la conferenza stampa di fine anno è l’esempio lampante di quanto detto finora. Nella sua dialettica il Presidente del Consiglio si vuole identificare nella donna che ce l’ha fatta in un mondo di uomini; nel fare ciò, però, conferma proprio quella cultura patriarcale secondo cui l’uomo deve voler lavorare e la donna deve voler aver figli «Perché? […] perché la maternità ti regala qualcosa che nessun altro traguardo ti può regalare».

Storicamente il mondo politico è sempre appartenuto alla componente maschile. Fin dalla nascita della democrazia, le donne erano totalmente escluse dalla vita pubblica. Nelle piazze e poi nei parlamenti erano gli uomini a confrontarsi, a votare e a fare le regole. Alle donne spettava la sfera domestica, la gestione della casa e la cura di bambini ed anziani, considerate inadatte a fare qualsiasi altra cosa, compreso votare. Nelle società post-industriali, però, ciò è radicalmente cambiato. Sempre più bambine hanno cominciato ad avere accesso ad un’educazione primaria, secondaria finanche accademica e ciò ha portato ad una rivoluzione del mercato del lavoro che si è femminilizzato sempre più. Il suffragio universale e l’aumento del tasso di partecipazione delle donne alla forza lavoro sono risultati fondamentali per la rappresentanza femminile nei paesi occidentali, perché ha permesso alle donne di avvicinarsi ai sindacati e alle associazioni datoriali e, in generale, ad ambienti più politicizzati.
Tuttavia, questa enorme trasformazione della sfera pubblica non è andata di pari passo con quella della sfera privata, che continua ad essere considerata una prerogativa femminile. Le donne devono ancora cercare un equilibrio tra la vita privata e quella professionale e spesse volte sono costrette a dover scegliere tra l’una e l’altra. A ciò si aggiunga che normalmente si dedicano al lavoro non retribuito una media di quattro ore e cinquantatré minuti in più rispetto a quanto non

facciano gli uomini e questo impedisce non solo l’avanzamento professionale, ma anche l’attivismo politico. Le barriere strutturali che si frappongono tra le donne e la politica esistono anche quando le donne non vogliono avere figli, perché guadagnano mediamente meno dei lavoratori e hanno meno possibilità di raggiungere posizioni di vertice. Gli ostacoli di ordine socioeconomico condannano le donne a lavori retribuiti peggio, a contratti di lavoro part-time, ad essere più spesso disoccupate e, in generale, ad un maggior rischio di povertà. Ed è proprio la condizione di povertà a rappresentare uno dei principali impedimenti al coinvolgimento delle donne in politica, il che fa sì che solo quelle privilegiate possano permettersi di mettersi seriamente in gioco.

Al di là di una questione di giustizia -secondo cui le donne hanno diritto alla metà dei seggi perché costituiscono metà della popolazione-, esistono altre teorie che spiegano perché è importante una maggior rappresentanza femminile: c’è la teoria dell’esperienza che sostiene che le donne devono avere una rappresentanza perché hanno esperienze biologiche e sociali diverse rispetto agli uomini; la teoria dell’interesse dice che donne e uomini hanno interessi contrastanti, cui non sono gli uomini a poter dar voce. Da un punto di vista democratico, invece, si sostiene che un’equa rappresentanza di donne e uomini possa migliorare tutto il sistema di governance sia nelle democrazie affermate che in quelle di transizione.

Io mi soffermerei sulla teoria simbolica, secondo cui ogni politica agisce in ogni caso da modello per tutte, a prescindere dalle dichiarazioni che fa, dalle opinioni che ha o dal partito di appartenenza. Secondo una lettura di tipo sostanziale, però, la politica deve agire nell’interesse delle persone che rappresenta, quindi, nel caso specifico, impegnarsi per garantire una legislazione sensibile al genere e inserire questioni femminili in agenda. Se, dunque, secondo un’argomentazione simbolica Giorgia Meloni avrà comunque l’effetto di attirare altre donne nell’arena politica, nonostante il suo orientamento di estrema destra e il modello culturale patriarcale che professa, da un punto di vista sostanziale le azioni e le scelte del Governo non stanno supportando la componente femminile.

Affrontare questioni di genere in un’ottica femminista non significa parlare di natalità e di madri-lavoratrici. Al contrario, è fondamentale parlare in primis di lavoratrici (non necessariamente madri: le donne sono discriminate tutte nel mondo del lavoro e lo sono anche se non vogliono figli o ancor prima di intraprendere una gravidanza) e di genitorialità condivisa. Bisognerebbe preoccuparsi del fatto che le donne che lavorano sono solo 9,5 milioni, contro i 13 milioni di uomini; che il divario salariale medio tra uomini e donne è del 43%; che i contratti part time coinvolgono circa il 49% delle lavoratrici. Bisognerebbe preoccuparsi del fatto che in Italia, nel 2022, 1 donna su 5 ha dato le dimissioni a seguito della maternità e nel 52% dei casi proprio per esigenze di conciliazione vita-lavoro.

«Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, sette figli; Roberta Metsola, Presidente del Parlamento Europeo, quattro figli; si può fare. Si può fare.»

Meloni, invece che portare ad esempio la regola e proporre una soluzione, ha portato l’eccezione, dicendoci che se ce l’hanno fatta due donne bianche, borghesi, eterosessuali, ce la possiamo fare tutte. La premier si è però dimenticata di dirci che l’assenza di alcuni gruppi in politica dà luogo a disuguaglianze sociali e ciò ha un forte impatto sulle policies che vengono adottate. Per questo è così importante parlare di rappresentanza femminile in politica e pretendere una rappresentanza equa dei generi: solo quando un numero considerevole di donne avrà la possibilità di far sentire la propria voce sarà possibile promuovere quel cambiamento radicale di cui oggi abbiamo bisogno. Fino a quel giorno, gli impatti legislativi saranno insufficienti e inadeguati.

A Rosa D’Ascenzo, Maria Rus, Delia Zarniscu, Ester Palmieri, vittime di femminicidio dal 1°gennaio 2024 ad oggi.

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  • Francesca Valente

    Francesca Valente, triestina, femminista, appassionata di diritto del lavoro. Si laurea in giurisprudenza con una tesi interdisciplinare sullo sfruttamento del lavoro delle donne migranti. Durante il percorso accademico svolge un tirocinio curriculare prima nell'ufficio legale di I.C.S., Ufficio Rifugiati Onlus, poi nel centro di prima accoglienza Casa Malala. Prende parte al progetto Erasmus, trascorrendo sei mesi a Lione, dove frequenta corsi in Filosofia e Sociologia delle disuguaglianze e delle discriminazioni presso l'Institut d'études du travail de Lyon. Dottoranda con Adapt in Apprendimento ed Innovazione nei Contesti Sociali e di Lavoro presso l'Università di Siena, attualmente ricercatrice presso la FAI CISL. 

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